mercoledì 19 dicembre 2007

Fiducia nelle prospettive d'impiego e di carriera (3).

Gli indici di sfiducia nel lavoro che di per sé già evidenti nelle regioni del Mezzogiorno assumo particolare rilevanza poi in Sicilia, 43,5 per cento, in Campania, 44,3 per cento fino al dato negativo della Calabria che esprime tutto il dramma di un territorio afflitto da un disagio economico sociale particolarmente significativo con il 64,9 per cento degli intervistati che vedono nero il proprio presente lavorativo e anche il proprio futuro, percentuale che arriva al 70 per cento se si considera la sola componente femminile.

Le difficoltà del mercato del lavoro nelle regioni meridionali si riverberano in maniera amplificata sulla componente femminile. Nel 2006 il tasso di occupazione delle donne nel Mezzogiorno è stato pari al 31 per cento, oltre 15 punti percentuali al di sotto della media nazionale. In particolare risulta grave il ritardo di partecipazione delle donne in coppia con figli tra i 35 e i 44 anni, età nella quale sono più rilevanti gli ostacoli posti dagli impegni familiari che ne condizionano in modo grave l’inserimento nel mercato del lavoro.


Un dato che trova riscontro anche nella diversa percezione che uomini e donne hanno delle opportunità a loro riservate dal mercato del lavoro e che viene evidenziato dal divario in termini percentuali del tasso di fiducia nel lavoro analizzando le risposte dei partecipanti all’indagine per genere.

Se infatti gli uomini che ritengono che oggi sia più difficile trovare lavoro rispetto a sei mesi fa si attesta attorno al 35,3 per cento con una percentuale di ottimisti in crescita al 15,2 per cento, nelle risposte delle donne intervistate otteniamo una percentuale di sfiducia del 38,9 per cento, più alta della componente maschile di oltre tre punti percentuali e di ottimismo che si ferma al 9,3 per cento inferiore di circa sei punti percentuali alla percezione rilevata dai colleghi uomini.

Il problema della disoccupazione resta prioritario non solo come abbiamo visto per il Mezzogiorno, ma anche per i giovani dove raggiunge un tasso pari al 21,6 per cento. Va osservato a tale proposito che tassi di attività e d’occupazione bassi non sono soltanto un limite alle potenzialità di crescita economica ma, soprattutto, un ostacolo rilevante alle potenzialità di realizzazione sociale e di crescita individuale di gruppi consistenti di popolazione.
In Italia la partecipazione del gruppo più giovane della popolazione in età attiva è sceso ad un livello particolarmente basso: una tendenza che non emerge tra i comportamenti tipici di altri Paesi che hanno sperimentato prima tassi di scolarizzazione elevati. Nel 2006 il tasso di attività e quello di occupazione giovanile risultano in Italia inferiori di quasi 15 punti percentuali rispetto alla media UE15. Anzi, il differenziale si è ampliato di sei punti di dieci anni. L’ingresso ritardato nel mondo del lavoro può essere ricondotto sia a fenomeni di scorag-giamento – e qui particolare incidenza ha l’abbandono della ricerca di lavoro da parte di parte della popolazione giovanile, soprattutto di sesso femminile al Sud - sia ad una crescente propensione ad allungare i percorsi formativi. Sempre secondo gli ultimi dati del Rapporto Istat circa l’88 per cento delle persone in età compresa tra i 15 e i 24 anni in condizione non attiva risulta impegnato nel sistema formativo.

Anche in questo caso dall’analisi delle risposte degli intervistati per tipologia di attività risultano dei dati estremamente significativi con chi ha già un impiego che esprime percentuali di preoccupazione sensibilmente inferiori rispetto a chi come studenti e neolaureati in cerca di prima occupazione si trovano a dover affrontare un mercato del lavoro che viene percepito per nulla rassicurante sulle opportunità di impiego e di realizzazione professionale.

Appena l’11 per cento degli studenti e dei neolaureati pensa che sia oggi più facile trovare un lavoro rispetto a sei mesi fa contro il 15,3 per cento di coloro che risultano già impiegati, mentre se si guarda al futuro le cose non cambiano. Anche in questo caso chi si affaccia sul mondo del lavoro esprime maggiori preoccupazioni rispetto a chi è già occupato. A livello più generale lo sguardo al futuro non sembra cambiare di molto le percezioni degli italiani. Anzi, il tasso di fiducia se possibile tende a diminuire. La percentuale di intervistati che ritiene che tra sei mesi sarà più facile trovare lavoro scende dal 15,9 per cento della passata edizione al 13,7 per cento registrando un calo di due punti percentuali, mentre in crescita è la percentuale dei pessimisti che sale al 34,9 per cento con un incremento di tre punti percentuali rispetto all’anno precedente.

Per il resto i dati non cambiano di molto, con le donne sempre un po’ più pessimiste degli uomini anche se lo sguardo volge al futuro e i residenti al Nord sempre più ottimisti sulle future possibilità di impiego. Vedono uno scenario positivo nei prossimi sei mesi il 15,7 per cento dei residenti al Nord contro il 9,3 per cento di coloro che risiedono nel Mezzogiorno, mentre la percentuale di persone che esprimono preoccupazione per il futuro è del 31,1 per cento tra i residenti al Nord, del 37,2 del Centro e del 43 al Sud.

E’ inoltre ripreso in Italia il movimento migratorio interno della popolazione con il Mezzogiorno che rappresenta la principale area di origine dei flussi migratori diretti prevalentemente al Nord-Est e al Centro.

Secondo quanto riportato dal Rapporto Istat i 375 sistemi locali del lavoro meridionali a tessuto produttivo debole anche per la mancanza di una specializzazione, cedono popolazione ai 311 sistemi locali distribuiti prevalentemente in Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna.

In questi spostamenti entrano in gioco le condizioni del mercato del lavoro nella zona d’origine e in quella di destinazione e dunque, in ultima istanza anche la forza relativa alla struttura produttiva. Le tendenze spontanee del sistema produttivo italiano privilegiano infatti alcune porzioni di territorio, in particolare quelle con caratteristiche urbane e ne escludono altre specialmente nel Mezzogiorno.

A tale proposito le città sono un elemento di dinamismo capace di creare valore in questa fase di difficoltà del tradizionale del modello distrettuale italiano. Nei 46 sistemi locali con caratteristiche urbane risiedono infatti gli headquarter delle imprese di dimensioni maggiori, i servizi evoluti, la ricerca e sviluppo e, ancora adesso, una parte importante della manifattura.

Ecco quindi che aumenta la propensione al trasferimento come risposta alla carenza d’offerta del territorio d’origine. Il 56 per cento degli intervistati si dichiara infatti disposto a trasferirsi sia in Italia ma anche all’estero pur di trovare lavoro o di migliorare la propria condizione professionale in crescita di più di tre punti percentuali rispetto al dato dell’anno passato quando questa percentuale si fermava al 52,5 per cento – con punte dell’82,4 per cento tra i residenti in Sardegna - e con un trend più complessivo che vede diminuire sensibilmente chi non si dichiara disponibile al trasferimento, 9,3 per cento rispetto al 10,9 di un anno fa.

venerdì 14 dicembre 2007

Fiducia nelle prospettive d'impiego e di carriera in Italia (2).

Per quanto riguarda più direttamente il profilo dell’occupazione, l’Italia rimane a un livello nettamente inferiore rispetto al resto d’Europa.
Infatti nel 2006 il tasso di occupazione in Italia ha raggiunto il 58,9 per cento contro il 65,9 per cento della media UE15 e il 64,6 per cento dell’UE25, in un contesto nel quale comunque il mercato del lavoro italiano ha riflesso il buon andamento dell’attività produttiva.
Gli occupati sono infatti aumentati dell’1,9 per cento e il tasso di disoccupazione è sceso nel 2006 al 6,8 per cento dal 7,7 dell’anno passato. Ma, mentre nel Nord il tasso di disoccupazione è pari al 3,8 per cento, con punte del 3,5 nel Nord Est, nel Mezzogiorno arriva all’11,4 per cento.

Un dato che esprime, sia pure in un contesto positivo di crescita, la complessità del sistema Paese in tema di occupazione e che occorre tenere presente nell’analisi dei dati sulla fiducia nel lavoro.


Infatti alla domanda se sia più facile o difficile oggi trovare lavoro rispetto a sei mesi fa , il 36,62 per cento degli intervistati ha risposto che è più difficile (erano il 38,3 per cento nell’edizione passata) anche se migliora il numero degli ottimisti, passati dall’8,3 al 12,8 per cento.

Ma mentre al Nord la percentuale di persone che ritengono sia oggi più semplice trovare lavoro è del 17 per cento in crescita di ben sette punti rispetto all’anno precedente - con punte del 25 per cento in Trentino Alto Adige, che con un tasso di disoccupazione del 2,5 per cento nel I trimestre 2007 è anche la Regione italiana con il più alto tasso di occupati, e del 22 per cento in Friuli – nel Centro e nel Mezzogiorno la situazione è completamente diversa con percentuali che si fermano rispettivamente all’8,9 e al 7,8 per cento sia pure con una modesta crescita rispetto all’anno precedente.

In Centro l’unica area nella quale si registra un maggior tasso di fiducia sono le Marche con il dato relativo alle persone che ritengono più facile oggi trovare lavoro rispetto a sei mesi fa che raggiunge il 12,5 per cento, mentre per il Mezzogiorno la situazione appare molto più complessa.

Il Sud presenta infatti forti elementi di arretratezza anche sotto il profilo delle imprese. Nel Mezzogiorno si concentra infatti il 43 per cento delle aziende che l’Istat definisce di sopravvivenza, che cioè si limitano a cercare di produrre un reddito adeguato senza guardare a orizzonti lontani.

Le situazioni peggiori di disoccupazione si rilevano infatti in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia con tassi di inoccupazione che nelle prime tre Regioni superano abbondantemente l’11 per cento per arrivare al 14 per cento in Sicilia.


FIDUCIA NEL LAVORO E NELLE PROSPETTIVE DI CARRIERA
(Fonte: Best100, le aziende preferite dagli italiani - Vi ed., 2007)


Ritiene che oggi rispetto a 6 mesi fa sia più facile o più difficile trovare lavoro?
Più facile 12,8% (2007) - 8,3% (2006)
Più difficile 36,2% (2007) - 38,3% (2006)
Non so 50,6% (2007) - 53,2% (2006)


Ritiene che tra 6 mesi rispetto ad oggi sarà più facile o più difficile trovare lavoro?
Più facile 13,7% (2007) - 15,9% (2006)
Più difficile 34,9% (2007) - 31,9% (2006)
Non so 51,4% (2007) - 53,2% (2006)


(2^ parte - Segue)

Fiducia nelle prospettive d'impiego e di carriera in Italia (1).

L'andamento del tasso di fiducia nel lavoro è, tra le altre, una delle variabili che vengono investigate dall'indagine Best100, le aziende preferite nelle quali lavorare di PeopleValue.

L'obiettivo è molto semplice. Si tratta di fornire alle aziende che utilizzeranno le evidenze emerse dall'indagine per l'impostazione delle proprie politiche di employer branding, anche uno strumento operativo che sia in grado di aggiungere un'informazione in più. Ovvero, qual è l'animo dei nostri futuri e potenziali collaboratori, in relazione a quelle che possono essere specifiche situazioni di mercato in una determinata zona o Regione o, più in generale, al trend che si registra a livello nazionale.

E' un dato che spesso molti trascurano ma ad avviso di chi scrive estremamente importante perchè assolve al compito di restituire uno spaccato della realtà nazionale e delle singole realtà locali o regionali estremamente importante per l'employer branding manager perchè fornisce indicazioni sullo stato d'animo dei potenziali candidati con i quali andrò a parlare.

Tanto per fare un esempio, una forte sfiducia nella possibilità di trovare lavoro, porterà come conseguenza la ricerca da parte di coloro che la esprimono di aziende che siano in grado di assicurare principalmente la sicurezza del posto di lavoro.

E' un elemento indispensabile da conoscere nella realizzazione di una corretta strategia di employer branding non tanto per reagire di conseguenza ed impostare la comunicazione evidenziando, come nel caso in esempio, la solidità dell'azienda nella comunicazione dei valori aziendali, quanto per comprendere meglio il diverso approccio al lavoro da parte di differenti segmenti di popolazione presa in esame in base a clusterizzazioni per caratteristiche socioeconomiche e di residenza del target in questione, nella fattispecie, i miei potenziali candidati rispetto ai colleghi residenti in una determinata area d'azione o in possesso di determinate caratteristiche (ad esempio i laureati in ingegneria, informatica e matematica rispetto ai laureati in discipline economiche o ancora verso quelli in possesso di laurea ad indirizzo sociale e umanistico).

Prima di entrare nel vivo del tema vediamo di inquadrarlo in quella che è la realtà italiana. Da questo punto di vista una prima analisi delle evidenze emerse ci porta a dire che seppure un po’ meno pessimisti, gli italiani a caccia di lavoro sono sempre ansiosi e preoccupati. Che lo si abbia o che lo si cerchi, l’impiego è ancora un grave motivo di inquietudine e la maggioranza degli italiani pensa che trovarne uno nel prossimo futuro sarà sempre più difficile.

Le risposte fornite dagli intervistati si inseriscono all’interno di un più vasto contesto economico nel quale l’Italia riparte, come evidenziato dall’ultimo Rapporto Istat che registra i tanti passi avanti compiuti dal sistema Paese, come l’aumento del Pil e della produzione industriale che si sono tradotti in un consistente aumento dei posti di lavoro, ma che rileva anche i persistenti ritardi rispetto alla media e ai principali Paesi europei e i perenni dualismi che la ripresa non cancella.


A cominciare da quello Nord e Sud che continua a spaccare il Paese in due parti che in comune hanno ben poco. E poi quello tra imprese cosidette di sopravvivenza, che sono un terzo del totale, e quelle che invece innovano e hanno saputo reggere il confronto della concorrenza consolidando il proprio business.

In particolare la crescita dell’1,9 per cento registrata dal Pil nel 2006, rappresenta il ritorno allo sviluppo dopo un quadriennio di stagnazione che, con un ritmo medio d’espansione di appena lo 0,4 per cento, ha segnato la performance peggiore dal dopoguerra e anche all’interno dell’UE.

Di particolare rilevanza l’espansione del settore industriale con una crescita del 2,6 per cento e dove la ripresa si staglia in modo più netto rispetto agli altri comparti soprattutto quello dei servizi che registrano un’accelerazione debole e molto meno accentuata di quella registrata nel resto dell’UE.

In particolare è rimasta molto al di sotto di quella europea in servizi quali il credito e le attività professionali e imprenditoriali, forse anche per l’aumento del grado di penetrazione dell’offerta estera in questo settore che si rileva in modo particolare nel settore del credito e che ha avuto come conseguenza anche una maggiore incidenza degli istituti di credito esteri nella lista delle preferenze lavorative degli intervistati rispetto alle passate edizioni.
Comunque, sebbene l’Italia nel suo complesso rimane un sistema frenato dal nanismo – molte imprese e pochi dipendenti è la caratteristica principale del sistema produttivo italiano, dove un lavoratore su tre è autonomo – vi è stato un segmento notevole di imprese reattive, che hanno adeguato i propri standard produttivi alle richieste del mercato, che si sono affermate grazie all’innovazione, soprattutto nel comparto dell’industria e di tutti quei settori legati al Made in Italy, come il tessile, l’abbigliamento e il lusso.

Una situazione questa che peraltro trova riscontro nel miglioramento del percepito aziendale in termini di employer of choice proprio di quelle aziende del comparto industriale - Fiat, Eni, Enel, Finmeccanica – che costituiscono il perno del sistema produttivo italiano e di quelle legate al comparto del fashion e al concetto del Made in Italy – Armani, Gucci, Dolce&Gabbana, Bulgari – e che ritroviamo puntualmente nelle risposte degli intervistati.

(1^ parte - Segue)

lunedì 10 dicembre 2007

Employer branding: le donne preferiscono le aziende del largo consumo e della moda.

Il 2007 è stato l’Anno Europeo delle Pari opportunità e il nostro Paese lo ha affrontato con un gap di genere ancora molto rilevante nell’ambito del mercato del lavoro.

Il problema dell’occupazione femminile in Italia è ancora tutto da affrontare. A livello qualitativo, a livello retributivo, organizzativo, ma prima ancora dal livello elementare: quello quantitativo. Ci sono province in cui la percentuale di donne occupate supera di poco il 20 per cento.

La differenza tra tasso di occupazione maschile e tasso di occupazione femminile, nello stesso territorio, è di 20 punti nelle situazioni meno drammatiche e arriva addirittura a 40 punti percentuale in alcune Regioni del Sud dove il problema della mancanza di lavoro si vive con maggiore intensità. Mancano ancora le politiche non solo del lavoro ma sociali e della famiglia che creino le condizioni necessarie a cambiare la situazione.

Il fenomeno è diffuso praticamente in tutto il territorio nazionale. Anche nelle situazioni migliori il gap tra percentuali di uomini in età da lavoro occupati e percentuali di donne in età da lavoro occupate è di almeno 20 punti, 15 nei casi di eccellenza. A cominciare dalla media italiana: 57,5 per cento il tasso di occupazione, ma quello maschile è del 69,7 per cento mentre quello femminile si ferma al 45,3 per cento.

Nel Mezzogiorno la situazione è ulteriormente drammatica: nella Regione meno occupata d’Italia la Sicilia, dove il tasso medio arriva appena al 44 per cento, la percentuale di donne occupate è meno della metà di quella degli uomini: 28,2 contro 60,5.

Sono ancora i numeri a dire che anche quando va bene, anzi benissimo, le donne lavorano molto meno degli uomini: il tasso di occupa-zione maschile più elevato viene raggiunto dalla provincia di Reggio Emilia, l’ 81,7 per cento. Quello di occupazione femminile più elevato si registra a Bologna ed è del 63,2 per cento. Ovvero: 18,5 punti in meno. In ogni caso va dato merito all’Emilia Romagna di essere la Regione italiana con il più alto tasso di occupazione femminile, 61,5 per cento che va ben oltre l’obiettivo 2010 della strategia di Lisbona del 60 per cento.

Il raffronto con l’Europa poi è particolarmente desolante. Con una dato di occupazione femminile pari al 45,3 per cento l’Italia è penultima in classifica superata perfino dalla Grecia (46,2 per cento), con una media UE a 25 del 56,2 per cento e tassi di occupazione medi che vanno nei singoli Paesi europei dal 57,9 per cento della Francia al 59,3 per cento della Germania, dal 65,8 per cento della Gran Bretagna al 70,8 per cento della Danimarca fino alla punta d’eccellenza rappresentata dall’Islanda con l’81,6 per cento.

E’ questa la fotografia della realtà italiana dalla quale occorre partire per analizzare i dati relativi alle differenti scelte che uomini e donne intervistati hanno espresso in merito alle aziende nelle quali potendo scegliere vorrebbero lavorare che anche a fronte della considerazione che nella fascia d’età 25-34 anni gli uomini con almeno un titolo di studio secondario superiore superano a malapena il 60 per cento, mentre le donne arrivano quasi al 70 per cento.
Inoltre oltre una 25enne su quattro risulta aver conseguito la laurea, contro meno di un uomo su cinque.

Nonostante questo l’accesso al lavoro stabile per le donne rimane difficoltoso così come la conquista di un reddito adeguato e di una condizione soddisfacente in termini di percorsi di carriera e di sviluppo di competenze. Le donne arrivano ai livelli dirigenziali ma hanno difficoltà a conquistare i vertici decisionali. Secondo Eurostat in Italia la percentuale di dirigenti donne è del 20 per cento rispetto ad una media europea del 30 per cento e solo il 2 per cento raggiunge in Italia posizioni apicali rispetto al 10 per cento della media europea.

Le cause sono complesse e da ricercarsi nei meccanismi culturali del Paese, nella mancata adozione di politiche per la famiglia che inevitabilmente si riperquotono sulla gestibilità da parte delle donne della propria condizione di lavoratrice e madre, ma anche nei ruoli tipicamente ricoperti dalle donne in azienda che tendono a privilegiare settori dove è maggiore l’apporto creativo, come il marketing la comunicazione, le relazioni esterne e le risorse umane.
Ruoli dai quali però è più difficile che emergano le prime linee destinate a guidare l’azienda.

Una tendenza questa che emerge e trova conferma anche dall’analisi delle preferenze che uomini e donne esprimono in merito all’azienda nella quale potendo scegliere vorrebbero lavorare e che tende a premiare, analizzando il dato relativo alle risposte delle intervistate donne, settori quali l’alimentare, il largo consumo e la moda.

Barilla ottiene tra le donne un plebiscito con una percentuale di consensi dell’11,9 per cento quasi doppia rispetto alla seconda azienda maggiormente citata, Procter&Gamble dove vorrebbero lavorare il 6,3 per cento delle donne intervistate. Sempre in ambito di preferenze al femminile troviamo altre aziende dell’alimentare e del largo consumo come Ferrero, Nestlè, Coca Cola ma anche L’Orèal, Johnson&Johnson e Unilever. Importante anche la presenza di aziende della moda e del lusso, come Bulgari, Gucci, Armani, LVMH e Dolce&Gabbana.

Nella sfera maschile invece all’ambitissima Ferrari si affiancano le aziende dell’industria, con la Fiat al secondo posto e all’8,7 per cento delle preferenze, seguita da Eni, Enel, General Electric e Finmeccanica, le aziende legate all’Information Technology come Microsoft, Ibm, Google, Siemens e HP che continuano a rappresentare un benchmark di riferimento per diplomati e laureati uomini assieme per certi versi al mondo delle banche e della consulenza.


Azienda preferita nella quale lavorare. Preferenze donne/uomini:
(fonte: Best100, le aziende preferite dagli italiani - VI edizione, 2007)

Preferenze Donne
1. Barilla
2. Procter&Gamble
3. Mediaset
4. Eni
5. Ferrari
6. Ferrero
7. Vodafone
8. Nestlè
9. Fiat
10. L'Orèal

Preferenze Uomini
1. Ferrari
2. Fiat
3. Barilla

4. Microsoft
5. Eni
6. Ferrero
7. Procter&Gamble
8. Mediaset
9. Unicredit
10. Intesa San Paolo

venerdì 23 novembre 2007

Template e job posting per promuovere l'employer brand.

L'utilizzo sempre maggiore di Internet e dei siti di eRecruiting da parte dei candidati nella ricerca di lavoro obbliga le aziende ad un utilizzo dei vari job board non solo in modo tattico, limitato quindi alla necessità di ricoprire uno specifico ruolo vacante, ma strategico con l'obiettivo di sfruttare ogni occasione di contatto con un'audience di potenziali candidati per promuovere l'employer brand aziendale.

Purtroppo questo non avviene così spesso. Basta fare un giro tra gli annunci pubblicati sui vari Monster, Infojob, Talent Manager per scoprire che la stragrande maggioranza degli annunci sono uguali. Stessa impostazione, uguali i caratteri, simile il look and feel dell'annuncio. Alcuni azzardano l'inserimento di un logo ma il risultato rimane sostanzialmente lo stesso e se vi prendete la briga di consultare qualche annuncio noterete che nessuno riesce a catturare l'attenzione in modo particolare, efficace e distintivo. Il risultao è un'occasione persa per promuovere l'employer brand aziendale in un contesto di riferimento importante come quello dei job board.

La soluzione è semplice e viene già offerta dalle stesse aziende che gestiscono i siti di eRecruiting: usare un template personalizzato.

L'obiettivo di ogni recruiting manager è quello di attirare l'attenzione verso la propria proposta, renderla distintiva dalle altre e al tempo stesso promuovere la cultura della propria azienda mettendo in risalto inq uesto modo l'employer value proposition aziendale.

I template associati alla pubblicazione degli annunci di lavoro online sono in grado di rispondere a questa esigenza. Proprio per questo personalmente incoraggio le aziende ad utilizzare i template nella pubblicazione di annunci di lavoro online e a considerarli come parte integrante della propria strategia di recruiting. Ma per far questo occorre studiarli, pensarli, idearli, renderli coerenti con il messaggio che si vuole trasmettere e con le attività di comunicazione promosse dall'azienda verso il target dei potenziali candidati.

Dedicare un pò di attenzione a questo tipo di attività vuol dire incrementare la propria visibilità, credibilità e, più in generale, migliorare la riconoscibilità dell'employer brand aziendale.

martedì 20 novembre 2007

eRecruiting e social networking nella ricerca di lavoro.

Abbiamo visto nel post precedente come studenti e neolaureati usino ormai abitualmente il web per cercare il primo impiego e informarsi sulle possibilità di carriera nelle aziende, e come i professional, giovani e meno giovani, usino internet per gettare un occhio discreto alla ricerca di nuove opportunità professionali.

Le percentuali di utilizzo sono di tutto rispetto e quasi doppie rispetto all'abitudine di consultare i vecchi annunci di RPQ sulla stampa quotidiana L'80 per cento dichiara di utilizzare i principali siti di eRecruiting, il 29 per cento per facilitare l’attività della ricerca preferisce usare i metamotori di ricerca di lavoro – quei siti specializzati che raccolgono e indicizzano tutte le offerte di lavoro presenti sulla rete internet – e il 10,1 per cento frequenta siti di social networking. Basta questo per vedere come la rete abbia radicalmente cambiato le abitudini di vita delle persone e di come sia diventata in breve lo strumento di comunicazione indispensabile con il quale le direzioni risorse umane delle aziende debbono confrontarsi per "comunicare" la propria employer value proposition aziendale.

La conoscenza dei meccanismi d'uso della rete e dei siti maggiormente consultati diventa quindi un elemento fondamentale nelle attività di pianificazione della comunicazione dell'employer brand aziendale. Per poter sapere dove pianificare ho bisogno di sapere dove trovare il mio target di riferimento, che in questo caso non è il consumatore finale ma il potenziale collaboratore della mia azienda, ne più ne meno come avviene nella pianificazione delle campagne pubblicitarie di prodotto o di corporate brand. Proprio per questo si tende a definire "recruitment marketing" questa attività.

Per far comprendere come questo tema sia delicato e vada affrontato con attenzione e preparazione basta osservare ad esempio, parlando di siti di social networking, che questi sono più utilizzati dai laureati in ingegneria ed informatica che con il 15,2 per cento si confermano come i più “smanettoni”, mentre all’ultimo posto nell’utilizzo degli strumenti partecipativi del Web 2.0 ci sono i laureati in chimica, fisica e biologia, con il 3,3 per cento (fonte: "Best100, le aziende preferite dagli italiani" VI ed., 2007, clicca qui per info).

L'utilizzo sempre più massiccio dei siti di eRecruiting, dei siti di social networking e anche il fenomeno dei blog, sono tutti segnali che vanno interpretati come l'affacciarsi all’orizzonte di una nuova tipologia di navigatori, che una recente ricerca di Forrester descrive come giovani, studenti (28 per cento) e di scolarità elevata (47 per cento), assidui utilizzatori di Internet con una grande elasticità mentale, più aperti alle novità e maggiormente adusi all’utilizzo delle tecnologie.

Persone che fanno del proprio utilizzo di Internet non un momento di assimilazione passiva di informazione ma piuttosto una esperienza di utilizzo della rete partecipativa e attiva, mediante la quale intessere relazioni sociali, costruirsi il proprio network di relazioni e di conoscenze, esprimere le proprie esperienze e le proprie opinioni, anche per quanto attiene in modo più specifico la reputazione dell’azienda come employer.

Le conseguenze, per quanto riguarda la comunicazione aziendale e le modalità con le quali gli uomini delle risorse umane cercano di intercettare i talenti e di costruire la propria immagine di employer di riferimento sono evidenti così come evidente è la necessità da parte delle aziende di non trascurare nelle proprie politiche di employer branding quelle persone che sempre di più utilizzano il proprio spazio virtuale per raccontare in presa diretta le loro storie, anche di vita aziendale, con un impatto facilmente immaginabile sull’immagine delle imprese come employer of choice.

Da questo punto di vista un commento negativo su un'azienda, non solo su un prodotto o servizio, ma anche su una esperienza di lavoro, può avere l'effetto di una valanga inarrestabile con danni di immagine estremamente significativi e difficilmente recuperabili.

All'Ocse, calcolano che il 35 per cento delle persone connesse in larga banda abbia pubblicato qualcosa sul web, il 25 per cento di coloro che hanno meno di 30 anni ha un suo blog, la metà dei teenager fa parte di un network sociale in rete.

E' in buona sostanza la nuova frontiera del Web 2.0 con la quale le direzioni risorse umane delle aziende saranno chiamate sempre di più a confrontarsi per non perdere la sfida di accaparrarsi i migliori talenti che sempre di più tendono a coinvolgere quella fascia di età della popolazione che va dai 18 ai 24 anni e che sempre di più sarà difficile per le aziende intercettare, per campagne di marketing, di prodotto o anche - per quello che in questo contesto più ci interessa - di recruiting anche se al momento tra i siti maggiormente utilizzati o meglio apprezzati per qualità e servizi rimangono gli operatori di eRecruiting a cominciare da Monster che con il 57,7 per cento degli utilizzatori si conferma come sito di riferimento per il settore in Italia, seguito da Infojobs al 26,9 per cento, dal Trovalavoro del Corriere.it al 15,6 per cento e da Talent Manager al 14,7 per cento. Jobrapido con il 13,7 per cento degli utilizzatori è invece leader dei metamotori di ricerca di lavoro e Linked In tra quelli di social networking sia pure ancora con una bassa percentuale di utilizzo, appena lo 0,54 per cento indice di un segmento ancora di nicchia.

Siti di eRecruiting preferiti da studenti, neolaureati e professional nella ricerca di lavoro:
(fonte: Best100, le aziende preferite dagli italiani - VI edizione, 2007)
1. Monster 57,69%
2. Infojobs 26,94%
3. Trovalavoro Corriere.it 15,56%
4. Talent Manager 14,77%
5. Jobrapido.it 13,74%
6. Stepstone 10,53%
7. Cambiolavoro 5,69%
8. Miojob Repubblica.it 4,12%
9. Jobcrawler 3,33%
10. Cercolavoro 2,48%

venerdì 16 novembre 2007

I talenti si cercano sul web.

Il lavoro ormai si cerca quasi esclusivamente sul web, tranne nei casi in cui i contatti personali o le vecchie “raccomandazioni” permettono di ottenere una scorciatoia nella difficile strada delle ricerca di un lavoro.

E’ questo che emerge dall’analisi delle risposte sulle modalità e abitudini di ricerca di lavoro dei 4.956 intervistati tra studenti, neolaureati e professional che hanno partecipato alla VI edizione della Best100, le aziende preferite nelle quali lavorare - anno 2007 la cui versione integrale è disponibile in questi giorni (per informazioni).

Con l’80 per cento degli intervistati che dichiara di utilizzare i principali siti di eRecruiting per cercare lavoro o monitorare le opportunità di crescita professionale, il 50,8 per cento che afferma di consultare le aree lavoro dei siti web aziendali alla ricerca di vacancies, il 29 per cento che per facilitare l’attività della ricerca preferisce usare i metamotori di ricerca di lavoro – quei siti specializzati che raccolgono e indicizzano tutte le offerte di lavoro presenti sulla rete internet – e il 10,1 per cento che frequenta siti di social networking, si vede come la rete abbia radicalmente cambiato le abitudini di vita delle persone e di come sia diventata in breve lo strumento di maggiore utilizzo da parte di chi, neolaureato o professional, è interessato a trovare il primo impiego o una nuova opportunità professionale.

Sono dati di estremo interesse soprattutto per chi in azienda è chiamato a mettere in atto delle strategie di employer branding perché danno una chiara indicazione verso quale mezzo sia meglio orientarsi per comunicare l’employer value proposition aziendale.

Tra tutti poi le donne sono le più attive nell’utilizzo di Internet come strumento per la ricerca di lavoro. L’80,8 per cento dichiara di usare i principali siti di eRecruiting rispetto al 79,7 per cento degli uomini, il 56,9 per cento di frequentare le aree lavoro dei siti web aziendali a caccia di opportunità, contro il 47,1 per cento degli uomini che invece manifestano maggiore familiarità con i siti di social networking, 12,2 per cento rispetto al 7 per cento delle donne.

Gli uomini poi tendono a preferire i contatti personali, il cosidetto personal networking, nella ricerca di opportunità professionali, 48,8 per cento rispetto al 42,7 per cento delle donne. Contatti personali che sono poi largamente usati dai professional, 48,1 per cento, che registrano anche una maggiore incidenza nell’utilizzo dei siti di eRecruiting, 80,6 per cento, con un picco di utilizzo nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, con l’86,8 per cento, rispetto al segmento studenti e neolaureati, fermi al 78,1 per cento.

In continuo declino la stampa quotidiana, che se ottiene un rispettabile 45,9 per cento risulta in realtà in costante declino rispetto al 63,4 per cento dei dati del 2002, mentre relativi al solo segmento degli studenti universitari risultano essere la partecipazione a job fair universitari, piuttosto che la consultazione delle schede aziende nei career book e comunque con dati molto limitati non solo nei confronti del totale della popolazione investigata nell’indagine ma anche al solo segmento relativo a studenti e neolaureati.


Solo il 12 per cento infatti usa partecipare ai job fair universitari e solo il 10 per cento consulta un career book per avere una panoramica delle aziende e delle possibilità di carriera e di crescita professionale. Un dato che dovrebbe far riflettere su come la sola partecipazione ai job meeting non serva a comunicare in modo efficace ed efficiente le proprie politiche di employer branding.

Se ci spostiamo invece sull’analisi dell’utilizzo di strumenti di social networking scopriamo che sono i professional la categoria nella quale si registra un maggiore utilizzo e una maggiore familiarità. Risultano essere usati dall’11,6 degli intervistati rispetto al 5,7 degli studenti e dei neolaureati contrariamente a quello che succede negli Usa con il fenomeno Facebook che ha negli studenti universitari la massa critica di utlizzatori per quanto sia stato recentemente aperto a tutti.


Tra tutti poi i siti di social networking sono più utilizzati dai laureati in ingegneria ed informatica che con il 15,2 per cento si confermano come i più “smanettoni”, mentre all’ultimo posto nell’utilizzo degli strumenti partecipativi del Web 2.0 ci sono i laureati in chimica, fisica e biologia, colo il 3,3 per cento del totale li utilizza, seguiti dai diplomati, 6,6 per cento.


Modalità di ricerca di lavoro in Italia per studenti, neolaureati e professional.
(Fonte: "Best100, le aziende preferite dagli italiani" - VI edizione, 2007)
1. Siti web di eRecruiting - 80,0%
2. Sezioni lavoro dei siti web aziendali - 50,8%
3. Contatti personali - 46,2%
4. Annunci RPQ sulla stampa quotidiana - 45,9%
5. Metamotori di annunci di lavoro - 29,9%
6. Siti web di social networking - 10,1%
7. Consultazione di career book - 8,9%
8. Partecipazione a job meeting - 7,0%

martedì 13 novembre 2007

Employer branding e business game: il successo de L'Orèal.

Uno dei casi di maggiore successo nella promozione e valorizzazione dell’employer brand aziendale è senza dubbio rappresentato da L’Oréal che da sette anni ha lanciato con grande successo una manifestazione denominata L’Oréal e-Strat Challenge.

Si tratta di un business game che permette agli studenti di tutto il mondo di mettere alla prova le proprie abilità manageriali, strategiche e decisionali e che si è rivelato essere una delle più innovative strategie di reclutamento degli ultimi anni i cui risultati sono andati ben oltre le apsettative iniziali: 177 mila studenti coinvolti provenienti da 2200 scuole di 128 diversi Paesi nel mondo.
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Il business game è molto intrigante: raggruppati in team composti da tre persone, lo scopo del gioco è quello di gestire un portafoglio di prodotti del settore cosmetici e competere per la leadership contro altre quattro compagnie virtuali in sei round che durano approssimativamente sei mesi. Gli studenti sono chiamati a prendere delle decisioni che riguardano tutti gli aspetti della gestione dell’azienda: dal prezzo ai prodotti, ai volumi, alla ricerca e sviluppo, al marketing, alla pubblicità, al posizionamento del brand. Ogni round nel gioco corrisponde ad un periodo di sei mesi nella vita reale e le altre 4 aziende virtuali sono parte attiva del gioco perché non solo operano per loro conto ma rispondono attivamente ad oigni cambio di strategia di ogni singola squadra partecipante. L'obiettivo è quello di ottenere il maggior valore del proprio SHARE PRICE INDEX (SPI) per accedere alle fasi successive del gioco e arrivare alla finale che si svolge a Parigi.

Oltre ad avere un’importanza educativa, il concorso L’Oréal e-Strat Challenge è uno degli strumenti di student recruiting più innovativi esistenti sul mercato oltre che un’efficacissimo mezzo per promuovere l’employer brand dell’azienda permettendo alla società di entrare in contatto con giovani di alto potenziale in tutto il mondo che può avere interessanti risvolti anche per le attività di reclutamento.


«Per noi il reclutamento è una fonte di vantaggio competitivo - ha avuto modo di commentare Geoff Skingsley, vice presidente alle Risorse Umane L'Oréal - E-Strat Challenge è il trampolino di lancio ideale per una promettente carriera in azienda». Non a caso i tre vincitori dell’edizione 2005, un gruppo italiano, sono tutti stati assunti in un’azienda che in Italia ha un trend di assunzioni di circa 70-80 persone l’anno dei quali i due terzi sono neolaureati.

Tra le altre cose, il gioco ha permesso all’azienda di arrivare a conoscere un numero di possibili candidati più vasto di quanto non sarebbe stato possibile effettuando il tradizionale giro delle principali scuole aziendali del mondo. E' un’incontro reale tra l’azienda e gli studenti e la cosa maggiormente interessante è che le candidature si sono moltiplicate in tutto il mondo, dall’università di Fudan in Cina a l’Esade in Spagna, da Coppead in Brasile a Hec in Francia ed Harvard negli Stati Uniti.

La competizione è nata con un obiettivo chiaro: far conoscere a migliaia di studenti in tutto il mondo la ricchezza dell’industria cosmetica e promuovere l’employer brand dell’azienda. Alla luce dei dati registrati possiamo dire che questo obiettivo è stato perfettamente centrato.

venerdì 9 novembre 2007

Engagement e relazioni industriali.

L’effetto Marchionne contagia anche altre aziende. La scelta della Fiat di anticipare ai dipendenti 30 euro di aumento in busta paga non è rimasta isolata. A condividerla hanno incominciato subito dopo l’annuncio dell’amministratore delegato del gruppo automobilistico di Torino anche altre aziende tra cui la Riello, l’Ilva di Taranto e l’Alenia del gruppo Finmeccanica che si sono mosse tutte sulla scia dei 30 euro della Fiat, subito seguite da altre aziende che hanno superato questa soglia.

Si tratta della Brembo del vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei che ha dichiarato di voler aumentare i salari ai propri dipendenti di 43 euro al mese o di aziende come le Acciaierie Valbruna di Vicenza che hanno deciso per un rialzo di 50 per arrivare alla Eaton e alla Sbe di Molfalcone che hanno raggiunto un’intesa su 115 euro di aumento sostanzialmente in linea con le richieste sindacali di 117 euro.

Da questo punto di vista la scelta della Fiat e delle altre aziende che ad essa si sono ispirate nel concedere anticipi sui futuri aumenti retributivi va interpretata come un’apertura e al tempo stesso un monito nei confronti dei sindacati.

Un’apertura perché dimostra come con un meccanismo meno ritualizzato i periodi buoni per le aziende si possano trasformare più velocemente in un vantaggio in busta paga per i lavoratori. “E’ un atto di attenzione nei confronti dei lavoratori ed è coerente con le riflessioni che da tempo Confindustria sta portando avanti per rendere più moderne le relazioni con il sindacato” ha detto il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. Questo perché a suo parere “occorre superare la ritualità che caratterizzano da almeno trent’anni i rinnovi contrattuali e trasformarli davvero in strumenti utili per la tutela dei lavoratori e le esigenze di competitività delle imprese”. Un monito quindi al mondo sindacale sull’opportunità di continuare con le vecchie liturgie legate a conflittualità e trattative ad oltranza ma anche un monito a quell’ala dura di Federmeccanica che non intende venire incontro alle richieste dei sindacati.

Da questo punto di vista quindi la mossa di Marchionne è di fondamentale importanza perché segna un nuovo paradigma nei rapporti tra aziende e lavoratori, che è il tema che qui ci interessa sviluppare.

In questo caso dal vertice di un’azienda si ammette implicitamente che un buon bilancio non viene costruito solamente dai top manager aziendali, con le loro abilità pagate milioni di euro l’anno, ma anche dai lavoratori, siano essi operai, impiegati o quadri intermedi. Mi sembra se non una rivoluzione copernicana almeno un elemento di grande novità nell’intendere il rapporto azienda-lavoratore in questo Paese con il riconoscimento implicito della centralità delle risorse umane.

Anche se di dimensioni minori rispetto alla Fiat ci sono molte altre aziende che registrano buoni bilanci e ad essi hanno certamente contribuito i loro dipendenti. Corretto quindi riconoscere ad essi dei riconoscimenti non soltanto verbali ma anche tangibili. L’operazione che solo alla Fiat costerà 3 milioni di euro al mese comprensivi dei contributi risponde, per usare le parole di Montezemolo “alla necessità di rimboccari le maniche per far crescere il paese e riconoscere la centralità delle persone che hanno contribuito ai risultati di Fiat”.

Se il segnale dato dalla Fiat non è disgiunto da quello delle altre imprese è comunque significativo che arrivi da un’azienda che in passato si è segnalata in non pochi casi per essere stata un’esponente dell’ala intransigente di Confindustria ma che oggi, impegnata in uno sforzo di risanamento e di crescita, non vuole dover mettere in conto una nuova stagione di conflittualità in fabbrica. Da questo punto di vista il segnale segue un doppio binario, il primo verso il sindacato, l’altro verso Federmeccanica e quegli associati che non sono per nulla contenti dell’iniziativa Fiat.
E sulla logica del doppio binario secondo Confindustria occorre muoversi anche per i rinnovi contrattuali, mantenendo da una parte il contratto nazionale che è e resterà il pilastro della contrattazione nazionale e dall’altra la trattativa di secondo livello come scelta discrezionale dell’impresa variabile a seconda delle performance aziendali.

Da questo punto di vista il tema assume quindi una dimensione più ampia e complessa perché non è solo una questione di soldi è anche una questione di coinvolgimento e motivazione dei dipendenti agli obiettivi di business aziendali (che poi è uno degli obiettivi impliciti di una politica di gestione delle risorse umane votata al rafforzamento dell’employer value proposition aziendale).

Il contratto nazionale riguarda tutte le imprese e non tutte le aziende condividono con Fiat e i casi che abbiamo appena visto una stagione ricca di successi. Se il contratto nazionale proponesse obiettivi legati a aumenti retributivi sic et simpliciter che non tengano conto delle singole e specifiche realtà aziendali si rischierebbe solo di provocare degli squilibri mettendo a rischio la sopravvivenza di alcune piccole e medie imprese. Proprio per questo la linea della doppia contrattazione sembra essere quella più adeguata anche per ridurre le conflittualità in azienda e motivare le persone. Spostare il baricentro della contrattazione collettiva in azienda cioè nel luogo dove si prendono le decisioni rilevanti per far crescere la produttività significa ridisegnare anche il ruolo del contratto nazionale che sempre più andrebbe valorizzato come rete di protezione per quei lavoratori che possono contare solo su questo livello di contrattazione. Per gli altri lavoratori che possono avere retribuzioni più elevate occorre lasciare a livello decentrato il ruolo regolatore della dinamica retributiva. Per far quadrare il tutto occorre però che le parti sociali adottino un nuovo sistema che preveda lo spostamento di quote di salario da contrattare a livello decentrato e che possano sostituire e non aggiungersi a quelle definite a livello nazionale.

Misurare in modo più efficace la produttività serve a premiare il merito perché serve a coinvolgere sempre di più il lavoratore nella sfida della crescita aziendale. Alla Loro Piana, azienda leader nel settore tessile dell’abbigliamento, l’ultimo accordo ha portato una serie di novità: il premio di qualità è stato irrobustito economicamente e da annuale è diventato mensile in modo da essere maggiormente recepito dai lavoratori, inoltre è stato inserito un premio di produttività con indicatori che riguardano ogni fase della produzione, con in più un premio che incentiva la presenza, le cui voci sommate assieme possono arrivare al 10 per cento della retribuzione.

Alla Timavo e Tiene impresa della provincia di Treviso a settembre hanno firmato un accordo che prevede, fra gli altri, un parametro di retribuzione legato al Mol nella misura fissa del 4,5 per cento. Nessun tetto massimo al raggiungimento dell’obiettivo, ma una percentuale direttamente legata al risultato operativo che si ispira chiaramente ad esperienze consolidate come quelle del profit sharing del Regno Unito.

Il segnale che viene quindi da quella parte più illuminata del mondo imprenditoriale mi sembra comunque molto importante perché va nella direzione di innovare i rapporti fra azienda e dipendenti e di costruire di conseguenza un sistema di relazioni industriali coerente con le sfide che le imprese debbono affrontare sui mercati globalizzati.

Innovare queste relazioni significa anche distribuire ai dipendenti i frutti delle innovazioni organizzative, tecnologiche e di mercato che permettono di aumentare la produttività dei fattori produttivi, lavoro compreso. Ma significa anche diminuire la conflittualità, creare un ambiente di lavoro più sereno e rispettoso della dignità delle persone, aumentare il grado di coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’impresa e allineare i propri collaboratori agli obiettivi di business dell’azienda.Ma significa anche rendere coerente e trasparente l’employer value proposition aziendale che si comunica all’esterno per attrarre in azienda le risorse di maggior valore iniziando a costruire dall’interno una ambiente di lavoro che non renda solo uno slogan l’affermazione “la nostra azienda è un buon posto nel quale lavorare”. Ed è proprio sulla base di questa coerenza e di questa consapevolezza che va il plauso ai vari imprenditori che si sono allineati sulla scia di quanto fatto da Marchionne e Montezemolo, con l’augurio che questo nuovo modo di intendere i rapporti tra azienda e dipendenti venga fatto proprio anche da chi, in questo momento e non solo in Federmeccanica, rimane su posizioni di chiusura ormai superate.

mercoledì 7 novembre 2007

La svolta socialdemocratica della Fiat.

Ho deciso di dedicare gli interventi di questa settimana al gruppo Fiat ovvero al nuovo approccio che la gestione Marchionne ha portato in un'azienda simbolo del capitalismo italiano nelle relazioni industriali, nel rispetto dei lavoratori e più in generale nel tentativo di costruire un nuovo sistema di relazioni tra azienda e lavoratori che vada verso una valorizzazione di questi ultimi attraverso il riconoscimento del merito e della dignità del lavoro quale paradigma fondamentale di una moderna relazione impresa-lavoratore.


Proprio per questo ritengo utile riportare l'articolo di Marco Ferrante su Il Foglio di mercoledi 31 ottobre 2007, "Le ragioni per cui la Fiat è diventata socialdemocratica":
Può un imprenditore europeo fare l’imprenditore senza essere un po’ socialdemocratico?
Questo tema è presente nei discorsi dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, almeno dallo scorso anno. Ben prima, cioè, del suo intervento a Mattinata, in provincia di Foggia, il 22 settembre scorso a una riunione di economisti industriali, raccolti intorno alla rivista l’Industria, diretta da Fabio Gobbo, consigliere economico della presidenza del Consiglio. Il discorso di Marchionne ebbe una certa eco. Fu subito ripreso dal Corriere della Sera (che ne pubblicò ampi stralci) e commentato il giorno successivo da Piero Fassino, il quale si compiacque di vedere in Marchionne, appunto, un vero socialdemocratico.
Ma che cosa pensa Marchionne, qual è il suo profilo culturale di manager industriale? Che cosa emerge dai suoi interventi pubblici? Già nel dicembre del 2006, ospite del top management di General Electric a Crotonville, Marchionne aveva posto un accattivante problema di cultura economica al suo uditorio. Il senso del ragionamento – poi ripreso successivamente – era il seguente: i modelli di capitalismo sono molti, ne conosciamo almeno tre, quello americano, quello europeo, quello asiatico. Questi tre capitalismi hanno un solo fattore comune: il mercato, cioè un sistema di concorrenza su qualità e prezzo. Per il resto i tre capitalismi corrispondono a modelli profondamente differenti. Quello americano è caratterizzato da una cultura del merito e del reddito come ricompensa del lavoro, dell’attivismo, della volontà. Quello asiatico è fatto di grandi chaebol, strutture di stato, fondi sovrani, regole selvatiche che si vanno organizzando. Infine, quello europeo, il modello più complesso in cui – secondo Marchionne – la differenza è data dalla responsabilità sociale, cioè dalla quota di spesa pubblica che viene convogliata sul sistema di welfare (quota di spesa che a metà degli anni Settanta cresce e si separa dalla dinamica americana, anche a causa della crescita del potere del sindacato).
Questa quota di spesa pubblica si ottiene mediante prelievo fiscale. Il prelievo è un dato strutturale con cui cittadini e imprese devono fare i conti. Questa premessa è importante per capire come ha fatto Marchionne a gestire l’avvio del risanamento di Fiat senza entrare in conflitto con il sindacato. Se si vive in un sistema in cui il prelievo fiscale è sostanzialmente incomprimibile, l’unico modo per neutralizzare il costo è recuperarlo laddove va a finire, le casse dello stato. E’ la tesi sostenuta su Libero da Mario Unnia: la vera ragione per cui il capo della Fiat faceva il socialdemocratico andava cercata nella necessità dell’azienda di trattare con il governo il problema di Termini Imerese – stabilimento in cui il costo del lavoro è eccessivo rispetto ad altre aree europee dove si potrebbero
sviluppare investimenti. Certo, in questo tipo di riflessioni c’è un tic culturale: chi nei confronti della Fiat conserva una forma di ostilità costruita sul rigetto dell’egemonia economica e di potere esercitata da Torino sul sistema industriale italiano, finirà prima o poi col dire che da questo punto di vista non c’è differenza tra marchionnismo e romitismo. Ma non è vero (lo stesso Romiti lo sa, e ha contestato la ricostruzione fatta da Marchionne sul risanamento della Fiat in una conversazione con Ferruccio de Bortoli, dopo il discorso di Mattinata).
Per Romiti, erede della cultura di Valletta e del senatore Agnelli, le dimensioni del sistema pubblico, delle sue pretese, delle sue esigenze, corrispondevano al perimetro nazionale in cui principalmente si svolgeva l’attività della Fiat. La Fiat dava impiego a 250.000 persone, forniva un contributo cospicuo al gettito fiscale, in cambio chiedeva protezioni di mercato (ma tutti i mercati nazionali erano protetti) e contributi pubblici. Per questo Romiti non ha mai considerato centrale il prodotto (come del resto Gianni Agnelli), e ha sempre considerato centrale lo scambio politico azienda-stato.
Il marchionnismo è un’altra cosa. Al centro dell’azione c’è un prodotto da vendere su un mercato domestico privo ormai di protezioni, e sui mercati internazionali in cui la quota di mercato è ridotta della metà rispetto ai bei tempi. Marchionne ritiene che in un mondo ideale non dovrebbe esserci rapporto di scambio con il sistema pubblico. Ma essendoci, va limitato a un equo rapporto di ragionevole contrattualismo. Non si può intervenire drasticamente sulla parte fiscale né sul costo del lavoro. Bene. Allora, sulla prima questione con i suoi uomini cerca di trattare quanto possibile: per esempio, un emendamento alla Finanziaria chiede la proroga del regime della rottamazione per le auto a emissioni inquinanti (che comunque è un provvedimento la cui ricaduta non è solo un vantaggio per la Fiat, il vantaggio vale per tutti i produttori, e da un punto di vista ambientale dovrebbe concorrere al bene pubblico), e c’è da risolvere la questione Termini Imerese. Sul costo del lavoro, invece, Marchionne cerca di stabilire relazioni sindacali fondate sulla fiducia nella leadership (finché la leadership ha successo), sulla capacità di mantenere le promesse e sulla contropartita economica, come ha fatto a partire dal contratto integrativo firmato anche dalla Fiom lo scorso anno.
Il tema della leadership è ricorrente nello schema del discorso-tipo dell’a.d. di Fiat, sin dal novembre del 2006, quando all’assemblea generale dell’Anfia, spiega per la prima volta che i successi raggiunti sono il risultato di una nuova idea di leadership fondata su cinque pilastri: la nuova Fiat è una meritocrazia, ha capacità di guidare il cambiamento, ha introiettato il concetto di competizione, raggiunge risultati in linea con la concorrenza, sa mantenere le promesse.
Questo approccio deve convincere i mercati, ma anche il sindacato con cui il nuovo capo della Fiat riesce a
stabilire un clima partecipativo. Spiega a più riprese – anche con una certa dose di furbizia – che il peso del costo del lavoro in fondo può essere sopportato. Quando decide di ridurre il personale, simbolicamente lo fa da sinistra: liquidando alcune centinaia (il numero esatto non è mai stato reso noto) di manager intermedi. E’ come se un serio processo di riforma liberale delle corporazioni cominciasse dai notai e non dai tassisti. Anche da questo punto di vista, Marchionne si comporta in un certo senso da socialdemocratico, perché sa governare un fase di dura ristrutturazione ribaltando gli schemi: qui sono i manager burocratizzati ad andare via. La mossa gli guadagna benevolenza sociale nella fase di avvio del risanamento e la rincorsa dell’establishment di sinistra, spiazzato dalla fine del vecchio sistema di relazioni industriali, che presiedeva al rapporto con la Fiat (sistema reso più complesso dall’aura torinese e dalla regalità sostitutiva).
E qui arriviamo alla terza declinazione del socialdemocratismo di SM, quella individuata in una conversazione con Daniele Manca del Corriere della Sera da Piero Fassino, dopo il discorso di Mattinata. Secondo Fassino quando Marchionne sostiene “che va accettata la sfida dell’innovazione e del nuovo, senza abbandonare al suo destino chi subisce le conseguenze del cambiamento”, si serve di “una forte impostazione riformista, direi socialdemocratica”. In realtà c’è una forzatura. Il senso del ragionamento che l’intervistatore induce in Fassino va inquadrato nella discussione pubblica sul nuovo orizzonte culturale di una forza di sinistra moderata. Marchionne è intervenuto a Mattinata proprio mentre uscivano due pamphlet – “Il Partito democratico per la rivoluzione liberale” di Michele Salvati” e soprattutto “
Il liberismo è di sinistra” di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – entrambi destinati a incidere nel dibattito sull’ispirazione economica del nuovo partito. La frase di Marchionne sul senso del liberalismo come protezione degli esclusi – elemento di base del liberalismo (strumento in sé, cioè né di destra né di sinistra) – sembrava andare nella direzione del liberalismo compassionevole di Alesina-Giavazzi e sembrava concorrere alla definizione di un liberalismo compatibile con l’ethos di sinistra. Ma chi lo conosce bene ritiene che Marchionne non abbia simili preoccupazioni. E’ un solido liberale cresciuto in una educazione anglosassone. Nel discorso all’Unione industriale di Torino del giugno 2006, che viene considerato il suo discorso programmatico – l’unico su cui si era sviluppato un dibattito, prima di quello di Mattinata – la principale citazione è, insieme con quelle di un paio di eroi del sogno americano (Mark Twain e Warren Buffet), una frase di Joseph Schumpeter: “Il processo del cambiamento industriale rivoluziona continuamente la struttura economica dal suo interno, distruggendo continuamente la vecchia e creando continuamente una nuova. Questo processo di Distruzione Creativa rappresenta l’essenza stessa del capitalismo. Il capitalismo è questo, e le aziende che operano secondo le sue regole si devono adeguare”. E’ vero, Shumpeter, economista di formazione giuridica, fu un liberale anomalo, riteneva che i prezzi si potessero fissare attraverso equazioni come nella teoria dell’equilibrio economico generale. (La circostanza gli guadagnò la disistima di Mises che lo malsopportava perché, dopo essere stati quasi amici, avendo frequentato insieme il seminario di Eugen von Böhm- Bawerk, Schumpeter ebbe più successo in vita.) Ma, checché ne pensasse Mises, c’è una parte dell’opera schumpeteriana, questa sullo sviluppo e la distruzione creatrice, fondamentalmente liberale. Marchionne se ne serve per definire la sua filosofia Dunque, nessun socialdemocratismo – se non con riguardo all’equità prodotta dalle politiche liberali. Persino lo scaltro intervento sulla trattativa sindacale, l’aumento di 30 euro unilateralmente anticipato da Marchionne non va guardato come un’operazione di segno ideologico: non c’è socialdemocrazia, né paternalismo (o maternalismo secondo la versione del Manifesto che ha commentato “Mamma Fiat”). C’è il pr agmatismo (liberale) di chi intende risolvere problemi legati alla produzione: sono disposto a fare delle concessioni salariali, voglio in cambio elasticità e disponibilità sulla produzione (per esempio la gestione degli straordinari).
Ora, succede che per impadronirsi di un modello di successo, alcuni nel dibattito italiano cerchino di piegarlo ai loro schemi. Marchionne è diventato oggetto di inseguimento da parte di leader riformisti sindacali e politici (da Epifani a Fassino) che non volevano restare spiazzati dallo spostamento del confronto fuori dai confini culturali del vecchio patto tra produttori. Per il sindacato che opera sul campo, a cominciare dalla Fiom, la questione è ancora più delicata. C’è in ballo l’identità e il ruolo. Come ha detto una volta il segretario della Fiom torinese Giorgio Airaudo: “Marchionne è il nostro peggior concorrente”.
E un’analoga sensazione di disagio e spiazzamento si può ravvisare in un pezzo di dirigenza confindustriale. Il pragmatismo di Marchionne e dei suoi uomini rischia di andare più lontano nella riforma del sistema di relazioni industriali, nel rapporto con il sindacato, nella struttura dei contratti di quanto non sia riuscito all’ideologismo militante e antisindacale nella battaglia sull’articolo 18.
Marco Ferrante (pubblicato su Il Foglio del 31 ottobre 2007).

martedì 6 novembre 2007

Le risorse umane e sfide industriali nella Fiat di Marchionne.

Per completezza di informazione sull'ultimo post pubblicato sul rinnovato slancio dell'employer brand del gruppo Fiat mi sembra utile riportare l'intervento di Sergio Marchionne al forum Capitalismo e Responsabilità Sociale del settembre 2007 che delinea l'attenzione verso la valorizzazione delle risorse umane anche in una grande azienda chiamata ad affrontare il mercato e la concorrenza, proprio quella politica di attenzione e del merito che ha portato la Fiat a diventare la terza azienda maggiormente ambita nella quale lavorare nell'edizione 2007 della Best100, le aziende preferite dagli italiani.


«La storia della Fiat richiede di essere collocata e compresa all'interno del contesto sociale in cui il turnaround è stato realizzato. Gestire un'impresa in Europa significa prima di tutto avere a che fare con un modello di capitalismo che ha caratteristiche molto specifiche. Alcuni economisti sono convinti che il sistema europeo — per migliorare produttività, efficienza e profitti — debba convergere verso il modello americano. Non credo che questo tipo di convergenza sia possibile nel medio termine, ma non credo neppure sia auspicabile. Le organizzazioni europee sono nate e cresciute in un terreno culturale fertilizzato da due condizioni storiche: una tradizione di apertura al mercato relativamente recente e un forte senso di responsabilità sociale. Non esiste un unico modello di capitalismo. Stati Uniti, Asia, Europa sono tutti in competizione fra loro ma nessuno converge verso nessun altro. L'unico denominatore comune è il mercato. Queste organizzazioni danno il meglio di sé quando sono messe a bagno nella concorrenza aperta e globale.
È il concetto di responsabilità sociale che differenzia l'Europa dagli Stati Uniti. Secondo un'analisi dell'Ocse, la spesa pubblica sociale è circa il 27% del Pil in Francia, Germania e Italia — in Svezia addirittura il 38% — mentre si aggira intorno al 16% negli Usa. La differenza tra i livelli di spesa pubblica — europeo e americano — si manifesta in modo evidente a partire dal 1975. Da quel momento vi è un notevole aumento della spesa in Europa mentre in Usa si mantiene costante nel tempo. Indagare quali siano i motivi è compito dei politici. Qualunque sia la ragione, queste differenze esistono e chiunque operi in Europa deve considerare questo particolare contesto sociale e politico. Sono convinto, non solo sulla base della mia esperienza in Fiat, ma anche in altre realtà industriali europee, che si può e si deve cercare il dialogo costruttivo. E che le soluzioni si possono trovare.
In Fiat abbiamo ottenuto risultati importanti sulla via del dialogo. Dopo dieci anni— e senza un'ora di sciopero, che è un caso più unico che raro per l'Italia— è stato rinnovato il contratto integrativo aziendale. Dopo dieci anni sono stati assunti in fabbrica i primi giovani, in cambio di turni straordinari di lavoro. Abbiamo siglato un importante accordo con le istituzioni locali per la riqualificazione di Mirafiori, il più grande complesso industriale italiano, che ha comportato anche l'avvio di una nuova linea di produzione e l'assorbimento della cassa integrazione congiunturale. I risultati raggiunti da Fiat dimostrano che trasformazioni simili sono possibili, anche in un Paese con una forte coscienza sindacale e con quello che la maggior parte dei commentatori anglosassoni chiamerebbero «struttura del lavoro poco flessibile». Se dovessi scegliere tra cercare di risolverela relazione di General Motors con i suoi sindacati (Uaw) o di trattare i livelli occupazionali in Europa, io preferirei la seconda.
Non c'è dubbio che la produttività e la flessibilità rimangono gli elementi chiave del nostro sviluppo industriale. In questo contesto, l'Italia è decisamente indietro rispetto al resto dell'Europa, ma resto convinto che è sulla strada del dialogo costruttivo che i problemi si possono risolvere. Se una società liberale deve durare nel tempo, è nel suo interesse sostenere coloro che sono colpiti dal cambiamento.
L'Europa può e deve distinguersi nella creazione e nella gestione di mercati liberi, riconoscendo e trattando in modo efficace le conseguenze delle loro attività sui propri membri. E deve farlo in maniera onesta e giusta, senza cadere preda di certi meccanismi troppo protettivi che sono già in uso in alcuni paesi membri e che, soprattutto in Italia, possono seriamente minacciare la ripresa industriale del Paese. Ma l'impegno esiste e non può essere ignorato. Lo sviluppo di un'impresa non è solo una questione di tecnologia o di risorse finanziarie. È prima di tutto una questione di cultura. Le nostre imprese hanno bisogno di abbracciare la sfida del nuovo e pensare al futuro come a una grande opportunità. Hanno bisogno di un contesto trasparente e altamente competitivo. Hanno bisogno di vivere la cultura del cambiamento come una necessità. Di misurarsi ogni giorno sul merito, di fondare le proprie radici sui valori della concorrenza e del mercato. Quello che ogni Paese può fare è garantire che questa partita si giochi alla pari, che le opportunità siano le stesse offerte ad altre imprese in altri Paesi. In Italia non sempre queste condizioni sono così facili da trovare.
Qualche ragione c'è se gli investimenti esteri sono ancora così bassi. E queste ragioni si chiamano burocrazia, servizi, infrastrutture, tasse e costi di gestione. Dalla mia esperienza personale, ho visto che i vincoli burocratici alla fine proteggono aziende inefficienti, aziende che non hanno prospettive di sviluppo e nella maggior parte dei casi scaricano i costi sui clienti. La burocrazia non fa che alimentare se stessa. Perché porta la società a chiudersi a riccio, a proteggere quello che già esiste, senza mai affrontare le sfide del cambiamento. Allo stesso modo, ci sono altri elementi importanti per costruire un sistema economico che possa mostrarsi «attrattivo» non soltanto per chi opera già oggi in Italia ma anche per le aziende estere. Penso al miglioramento dei servizi pubblici, alla creazione di una rete di infrastrutture efficiente e moderna, a cominciare dal sistema viario e dei trasporti in genere. Ma penso anche alla riduzione della pressione fiscale e ad un tema come il costo dell'energia che in Italia è decisamente eccessivo rispetto al resto dei Paesi più industrializzati.
Tutti questi ragionamenti valgono a maggior ragione per il Sud Italia, dove è prioritario colmare il gap nei confronti del resto del Paese. Ma la prospettiva con cui ci si deve muovere non può essere quella assistenziale. La cultura dell'assistenzialismo produce dipendenza e spegne lo spirito di iniziativa e il senso di responsabilità. Il lavoro si crea solo se i meccanismi economici sono efficienti e se gli stimoli del mercato sono forti. In questo modo anche la cultura del cambiamento e della competizione possono trovare un terreno fertile. Credo che il caso della Fiat sia solo un esempio della ristrutturazione dell'industria in Europa e della forza positiva del cambiamento. Il nostro cambiamento è stato realizzato da un gruppo di manager internazionali, molti dei quali italiani, che hanno abbracciato l'idea della competizione globale e che sono disposti a mettersi in gioco e a coinvolgere gli altri stakeholders nel sistema economico per raggiungere i necessari livelli di competitività. Grandi organizzazioni sono il risultato dell'esercizio della leadership di uomini e di donne che comprendono il concetto di servizio, di comunità, di rispetto fondamentale per gli altri e che ispirano.
C'è una storia che oggi non vi ho raccontato. In un certo senso è troppo presto per raccontarla, è la storia della trasformazione personale dei leader che sono stati coinvolti nel rilancio della Fiat e delle persone che gestivano. Ci sono dozzine di esempi simili e indubbiamente più validi e significativi: General Electric negli ultimi 25 anni, prima con Jack Welch ed adesso con Jeff Immelt; la resurrezione di Ibm operata da Lou Gerstner, le esperienze di Robert Oppenheimer nel Manhattan project con il team che ha costruito la bomba atomica, l'incredibile vittoria di Bili Clinton nelle elezioni presidenziali del 1992. Ma l'elemento comune a tutti questi casi è che tutti hanno lasciato un segno indelebile sulla formazione e sulla crescita dei leader. Sono cambiati per sempre.
Stiamo imparando come si vive da sopravvissuti e stiamo sviluppando le capacità di pensare al futuro in modo aggressivo e positivo. E lo stiamo facendo in un paese che è stato spesso etichettato dall'Economist strutturalmente e cronicamente perdente con titoli quali «Arrivederci. dolce vita» e «Don't cry for me, Italia». Ma questa è la prova che c'è speranza per tutti noi: nemmeno gli inglesi hanno la capacità di andare oltre i limiti della credulità e dell'immaginazione. Dopo tutto, la storia della Fiat è la storia del potere della leadership e della mancanza di paura di un gruppo di leader integri impegnati a raggiungere gli obiettivi. Come dice Mel Gibson nel film Braveheart: «Gli uomini non seguono gli uomini. Gli uomini seguono il coraggio». E forse dobbiamo dare ragione a un teorico politico molto frainteso — Niccolò Machiavelli — che circa 600 anni fa disse: «Il ritorno al principio è spesso determinato dalla semplice virtù di un uomo. Il suo esempio ha una tale influenza che gli uomini buoni desiderano imitarlo e quelli cattivi si vergognano di condurre una vita contraria al suo esempio». In Fiat stiamo costruendo un gruppo guidato da uomini e donne di virtù. Ed è grazie al loro coraggio e alla loro virtù se oggi posso concludere citando la fine del libro ‘‘Una storia tra due città'' di Charles Dickens e parafrasando le ultime parole: «It is a far, far better thing Fiat does, than it has ever done. It is a far, far better place it is going to than it has ever gone». Tradotto: «Fiat sta facendo molto, molto meglio di quanto non abbia mai fatto. Sta andando verso un posto migliore, molto migliore di quanto non sia mai stata».
Sergio Marchionne

lunedì 5 novembre 2007

La cura Marchionne funziona anche sull'employer branding del gruppo Fiat.

Solo nel 2004 nessuno avrebbe scommesso un euro sul rilancio del gruppo di Torino che una serie di scelte manageriali errate avevano portato sull’orlo del baratro. Oggi ad appena 3 anni di distanza la Fiat è in grande forma: cresce il fatturato, crescono le quote di mercato, così come i profitti, cala l’indebitamento e il titolo viaggia da mesi sopra i 20 euro

Ora se è vero che la parte rilevante di questi risultati economici è da attribuirsi più che all’auto, che nonostante la crescita delle quote in Italia e Europa ha un margine operativo dell’1,2 per cento, alla controllata CNH leader nel settore delle macchine agricole e del movimento terra e all'Iveco che registrano utili impressionanti con un margine operativo rispettivamente del 7 e del 6 per cento, è innegabile che la cura Marchionne abbia rappresentato per la Fiat la vera svolta come testimoniato dal risalto dato dalla stampa a questo periodo straordinariamente positivo.


Un aspetto poco analizzato in questo contesto e tuttavia molto interessante per il tema che qui si tratta è l’identico successo della Fiat targata Marchionne dal punto di vista dell’employer value proposition aziendale. Uno degli elementi che più colpisce nella nuova gestione e che meno è stato analizzato dalla stampa è il fatto che in soli tre anni Marchionne non solo sia riuscito a risanare l’azienda e a dargli un piano industriale credibile, ma sia anche riuscito a trasformare la Fiat in un employer of choice, riportando l’azienda in cima alle ambizioni lavorative di diplomati e laureati italiani.

Solo nel 2004 l'azienda di Torino era al 14° posto nella classifica delle aziende maggiormente ambite nelle quali lavorare in Italia. Nel 2007 la Fiat si è invece posizionata al 3° posto della classifica Best100 sulle aziende preferite dagli italiani.

Ora se è indubbio che nel miglioramento dell’appetibilità dell’azienda come employer di riferimento abbia contato il suo risanamento industriale, parte rilevante in questo percorso va però anche attribuita alla politica dei talenti portata avanti da Sergio Marchionne sin dal suo arrivo in azienda unitamente ad una rinnovata attenzione alla dignità e valorizzazione delle risorse umane presenti in azienda.

Quelli che sono stati definiti dai media i “Marchionne Boys”, sono manager quasi tutti tra i 40 e i 50 anni, che sono stati rimotivati e ai quali sono stati affidati i posti chiave. Il più grande successo di Marchionne sta proprio nel fatto che le persone che hanno portato al successo la Fiat in questi anni sono le stesse persone che già vi lavoravano da tempo, in posizioni però che non gli consentivano di esprimere il loro potenziale di talenti, che venivano evidentemente impegnate male e su progetti non strategici.

“Ho promosso ragazzi che erano qui da anni, ma che venivano soffocati dai loro capi” ha detto Marchionne in un’intervista rilasciata qualche settimana fa al quotidiano La Repubblica concludendo di essere “per il riconoscimento della capacità delle persone”. Tant'è che poi quando decide di ridurre il personale lo fa “simbolicamente da sinistra” come afferma Marco Ferrante su Il Foglio del 31 ottobre 2007 “liquidando alcune centinaia di manager intermedi. E’ come se un serio processo di riforma liberale delle corporazioni cominciasse dai notai e non dai tassisti”.

Una mossa che fa guadagnare a Marchionne benevolenza sociale nella fase di avvio del programma di risanamento perché si ribaltano gli schemi: ad andare via sono i manager burocratizzati e meno produttivi. Un messaggio inequivocabile diretto a tutta la forza lavoro e in particolare agli operai.

Non a caso è lo stesso Marchionne che afferma in una intervista a La Repubblica “quando sono arrivato alla Fiat sono rimasto allibito delle condizioni dei dipendenti e mi sono posto l’impegno di umanizzare l’ambiente di lavoro. Si cominciano a vedere i risultati del nostro impegno con l’asilo, ma anche con la nuova mensa, le docce e gli spogliatoi e abbiamo intenzione di aprire un supermarket sempre a Mirafiori. A noi stanno molto a cuore le condizioni dei lavoratori».

E’ in questo modo che si è potuta restituire la dignità del lavoro agli operai degli stabilimenti che erano stati quasi completamente abbandonati, ricreando una cultura della produzione che la Fiat aveva perduto. “Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino senza averne responsabilità le conseguenze degli errori dei colletti bianchi” è sempre il pensiero di Marchionne. Ed è proprio questo pensiero che lo a portato a decidere di anticipare in busta paga dal mese di ottobre 30 euro a tutti i dipendenti Fiat in attesa della conclusione delle trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici con una mossa a sorpresa che ha stupito tutti, sindacati in primis, e che punta anche a stabilire nuovi percorsi nelle relazioni sindacali.

Non a caso Confindutria ha applaudito mentre i sindacati, che pure hanno riconosciuto il diverso approccio di Marchionne verso i lavoratori, hanno manifestato contrarietà confermando per tutta risposta le agitazioni previste per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici che non sembrano tuttavia aver registrato grandi consensi tra gli operai degli stabilimenti impegnati in una protesta pure corretta dal punto di vista umano e sociale: la necessità di avere stipendi adeguati ad un mantenimento delle famiglie in modo dignitoso.

Guardando il tema senza preconcetti non può sfuggire il senso di un’iniziativa, quella dei 30 euro, che mira a premiare chi ha partecipato al successo dell’impresa, un riconoscimento meritocratico diffuso che premia il senso di appartenenza.

Le sfide per il 2008 per il gruppo guidato da Marchionne sono altrettanto importanti. Rimane da mettere mano al rilancio dell’Alfa Romeo e per certi versi anche della Lancia, consolidare le buone perfomrmance di Fiat pur senza nuovi modelli da lanciare in un mercato europeo che si spera archivi le debolezze del 2007 e nel quale l'impegno maggiore sarà il rilancio della rete delle concessionarie, senza contare le incognite rappresentate dalla possibilità di ripetere per l'auto i buoni successi ottenuti in Brasile nell'anno in corso anche per il 2008 e gli impatti che il probabile rallentamento del mercato delle costruzioni negli Usa come conseguenza dei mututi subprime che potrebbe avere sulla gallina dalle uova d’oro del gruppo, la Cnh.

Vedremo dal punto di vista del business come la squadra guidata da Sergio Marchionne saprà gestire questa fase di consolidamento.

Dal punto di vista delle risorse umane e delle relazioni industriali ci auguriamo che Marchionne prosegua sulla strada intrapresa e che come successo nel caso dell’anticipo contrattuale ci siano altre aziende e altri imprenditori a seguirlo guardando con un’ottica nuova e più attenta al vero elemento distintivo e determinante per il successo delle aziende oggi: le persone che ci lavorano.

lunedì 29 ottobre 2007

Engagement, questo sconosciuto in azienda.

"Engagement" è una parola spesso sconosciuta in azienda e il più delle volte ignorata nella practice della gestione delle risorse umane. Il risultato è un forte gap nella moivazione dei propri dipendenti che si riflette non solo all'interno dell'azienda in termini di calo di produttività, stress e tensioni nei rapporti interpersonali, ma anche all'esterno per gli effetti che collaboratori poco motivati possono generare all'immagine dell'azienda come employer di riferimento con il rischio di vanificare le politiche di employer branding adottate per attirare in azienda i potenziali collaboratori di maggior valore.

Secondo il nuovo studio globale di Towers Perrin, il Global Workforce Study 2007, che ha preso in esame un campione di quasi 90.000 lavoratori in 18 Paesi, i dipendenti non credono che le aziende facciano abbastanza per incoraggiarli a fornire un valido contributo al successo dell’impresa.

Mentre i lavoratori dichiarano di voler essere maggiormente coinvolti, solo l’11 per cento degli italiani si sente valorizzato all’interno dell’azienda, il 40 per cento afferma di essere parzialmente stimolato e una percentuale considerevole, il 49 per cento, è moderatamente o completamente demotivato.

Il risultato italiano è in assoluto il più basso sia rispetto al resto d’Europa sia rispetto ai dati internazionali, che dimostrano come il 21 per cento dei lavoratori sia “engaged”.

La causa: il management italiano non comunica sufficientemente con i dipendenti in modo diretto e senza intermediari. Il 22 per cento dei lavoratori, infatti, denuncia la mancanza di apertura e trasparenza.Lo scarso engagement genera un impulso aspirazionale al cambiamento d’azienda. Il 58 per cento dei lavoratori italiani aspira a cambiare posto di lavoro, anche se poi solo il 16 per cento si muove attivamente per cercare di cambiarlo, con quali effetti sulle politiche di employer branding e di retention è facile immaginare.

Un impatto decisivo è dato dalla percezione del manager e dall’immagine aziendale. Il senior management ha una forte influenza sulle persone in termini di trasparenza percepita e coinvolgimento e ha la responsabilità di motivare le proprie risorse. Se fattori organizzativi, lavorativi e personali influenzano l’approccio del dipendente, anche per le aziende italiane è prioritario misurare il livello di engagement, individuare le best practice del mercato, implementare piani per incrementare il contributo delle risorse.

L’azienda che “fa la differenza” è quella che si distingue per la capacità di attrarre, trattenere il dipendente e motivarlo, infatti per i lavoratori italiani una buona gestione del personale è al top della “classifica” nella scelta del posto di lavoro.Ma c’è ancora molto da fare per creare un ambiente nel quale le persone siano effettivamente motivate. A livello di trasparenza, empatia, visibilità e efficacia nella comunicazione, i dipendenti si aspettano di più dal senior management, a cui chiedono più coinvolgimento e maggiore orientamento al benessere dello staff. Le leve HR vincenti per motivare il personale “performante” sono inoltre influenzate, sempre secondo l'indagine di Towers Perrin nche dal mix di formazione e possibilità di carriera. I lavoratori italiani puntano a migliorarsi e a cercare di sviluppare le proprie competenze professionali, un dato questo registrato anche nell'indagine Best100, le aziende preferite nelle quali lavorare nella sui VI edizione, quella del 2007, la formazione e la crescita professionale sono al primo posto nei fattori motivanti la scelta di un'azienda per il 76,8 per cento degli intervistati prima ancora di stipendio e benefit.

Non si può sottovalutare l’impatto di una forza lavoro motivata sulle performance di un’azienda. Su tutti gli aspetti – customer satisfaction, crescita dei ricavi, contenimento dei costi, profittabilità, innovazione – i lavoratori veramente motivati fanno la differenza rispetto a quelli coinvolti in misura marginale o a quelli disillusi e demotivati perchè non esiste innovazione, tecnolgia o organizzazione aziendale che non abbia bisogno di un supporto fatto di motivazione, impegno, capacità e volontà delle persone. E nulla può sviluppare competitività quanto motivazione, preparazione e volontà di ottenere risultati. Doti queste che risiedono unicamente nelle risorse umane.La vera sfida per manager e aziende è quindi quella di riconoscere il valore delle risorse, gestirle in modo trasparente, valorizzarle e coinvolgerle per allineare i propri collaboratori agli obiettivi di business dell'azienda.

giovedì 25 ottobre 2007

I talenti vale la pena scoprirli giovani.

Vi segnalo un interessante articolo pubblicato su Il Corriere della Sera del 19 ottobre 2007 da Severino Salvemini, docente di organizzazione aziendale alla Bocconi, che riprende il tema dei talenti dopo l'intervento di Pier Luigi Celli sullo stesso tema. Mentre Celli definisce quello del talento un mito da sfatare al più presto Salvemini ne esalta invece il valore intangibile attraverso una interessante e originale analisi della psicologia del talento.

Il gioco dei talenti, vale sempre la pena scoprirli di Severino Salvemini.
"I talenti, a prescindere dall' età e dall' anzianità. Purosangue come Ribot o Varenne che devono essere lasciati a briglie lunghe, coccolati con modalità personalizzate, perché solo così possono produrre grandi prestazioni. E' l' eccellenza dei pochi contro la normalità dei molti. Ed è scontato che l' insieme aziendale, il ventre più conformista e normalizzato, soffra questa nobilitazione e voglia spuntarne gli eccessi. Esattamente come alcuni anni fa la massa guardava con sospetto e diffidenza gli alti potenziali, aspettando solo qualche loro inciampo di "malagestione" per sterilizzare la qualifica di fermenti attivi e per includerli nella più rassicurante maggioranza silenziosa. Primedonne difficili da tollerare, i talenti si annoiano in fretta. Sono nomadi dentro: quando hanno l' impressione di aver raccolto tutto ciò che c' era da imparare passano altrove, dannati da coloro che rimangono a processare la banale routine. E ne sanno qualcosa i capi del personale che si irritano per non poter applicare le politiche standardizzate di gestione delle risorse umane. Pretendono ingaggi da favola e remunerazioni correlate al riconoscimento oggettivo del valore del loro contributo. Infedeli al sistema aziendale, sono imprenditori di loro stessi, credono in una carriera soggettiva (autodiretta e non pianificata dall' organizzazione) e scommettono sulle proprie relazioni nella comunità professionale. Per la notorietà che viene offerta loro dai mezzi di comunicazione, si ritrovano sovente a ricoprire posizioni di vedette. Lo sfruttamento economico di tale notorietà, non diversamente dallo star system che pensiamo operi solo nel cinema o nell' entertainment, condiziona ciò che possiamo chiamare l' economia della celebrità: 1) essi sono spesso eletti a rango di persone da emulare; 2) la capitalizzazione della loro fama è soggetta a fenomeni di autorafforzamento, essendo spesso in grado di amplificare il proprio score e di filtrare invece i risultati negativi controproducenti; 3) essi selezionano intelligentemente le occasioni per apparire in modo calibrato agli occhi dell' opinione pubblica e della tribù specialistica di riferimento. Maggiore è la preveggenza nell' assumere giovani talenti non ancora esplosi nello star system e maggiore sarà il valore intangibile che l' impresa finirà per incorporare dalla crescita della risorsa umana. Se invece l' inclusione organizzativa sarà spot, recuperando il professionista da un mercato che già lo ha ampiamente accreditato, il meccanismo sarà molto costoso poiché la stella manageriale verrà strappata ad altre istituzioni a colpi di alte offerte di denaro, innalzando il rischio che poi tale stella non riesca a ripagare l' investimento fatto (i nostri calciatori o artisti contemporanei docent). Chi dice che tutto ciò mal si concilia con il valore dell' equità può avere anche ragione. Ma il talento segue il proprio percorso biologico di eccezione e pretende di essere ricompensato e gestito con modalità significativamente differenziate rispetto al resto delle persone. Il talento ha un giudizio critico dell' uguaglianza come valore sociale: contrariamente al manager solidale che dà importanza a ciò che gli uomini hanno in comune, il manager di talento privilegia ciò che li distingue. Un risultato mostruoso dell' economia moderna? Una deriva egoistica frutto della esasperata battaglia contemporanea per il protagonismo e per la reputazione? Macché! Già nel famoso "Ricchezza delle nazioni" di 150 anni fa, Adam Smith così giustificava la distinzione organizzativa come modalità di apprezzamento del rischio: «nella lotteria perfettamente equa, coloro che estraggono il biglietto vincente devono guadagnare tutto ciò che perdono coloro che estraggono i biglietti perdenti». La possibilità di acquisire la celebrità è dunque il premio per coloro che si distinguono. Tutti poi possono conservare segretamente la fiducia nella buona stella, indipendentemente dai propri talenti. Basta non aspettarsi poi di essere eletto manager dell' anno."
(pubblicato su Il Corriere della Sera del 19 ottobre 2007).