giovedì 18 settembre 2008

Lavoro: diminuisce la fiducia tra diplomati e laureati.

L’Italia è in recessione. A lanciare l’allarme è Confindustria, che vede nero per l’economia della penisola. Il Centro Studi dell’associazione degli industriali prevede infatti per il 2008 un calo del Pil dello 0.1%. Un risultato che sarebbe in forte contrazione rispetto all’aumento del prodotto interno lordo del’1,5% registrato nel 2007 e che farebbe quindi parlare di recessione. La terza per l’Italia dal dopoguerra, dopo quella del 1975 e quella del 1993. Il quadro è drammatico ha detto ieri il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nel corso della presentazione del rapporto per sintetizzare e riassumerne i risultati, sebbene a ben guardare, le stime presentate da viale dell’Astronomia non siano intrise di pessimismo: l’ufficio studi dell’associazione degli industriali ritiene infatti che, archiviato il 2008 con un Pil ad un -0,1%, nel 2009 l’attività produttiva riprenderà e dopo un primo trimestre ancora negativo (-0,4%) l’anno dovrebbe chiudersi con un ritmo di sviluppo più vivace al +1,4%.

Se questo è il contesto nel quale ci muoviamo, non sorprende allora che il tasso di fiducia nel lavoro sia ulteriormente peggiorato tra diplomati e laureati italiani. Il numero di coloro che ritengono che oggi sia più facile trovare lavoro rispetto a sei mesi fa scende all’11,3% rispetto al 12,8% di un anno fa e aumenta sensibilmente il numero di persone che ritengono invece sia molto più difficile, il 39,2% rispetto al 36,2 per cento del 2007.

Insomma che lo si abbia o che lo si cerchi, l’impiego è ancora grave motivo di inquietudine e la maggioranza degli italiani pensa che trovarne uno nei prossimi mesi sarà sempre più difficile. Se infatti nel 2007 il 13,7 per cento degli intervistati intravedeva una speranza nel futuro, quest’anno è solo il 12,1 per cento a considerarsi ottimista sulla possibilità di trovare un nuovo impiego o cambiare l’attuale nei prossimi sei mesi, mentre la percentuale dei pessimisti sale dal 34,9 per cento del 2007 al 37,6 per cento del 2008.

Sono queste in buona sintesi i dati relativi alla fiducia nel lavoro emersi dall’analisi delle risposte dei 5.040 intervistati che hanno partecipazione all’edizione 2008 dell’indagine "Best 100, le aziende preferite dagli italiani" che, tra le altre, rileva anche l’andamento della fiducia di studenti e professional sulle prospettive di impiego e di carriera. Come abbiamo in passato già avuto modo di sottolineare infatti l’analisi dell’andamento del tasso di fiducia nel lavoro è uno dei parametri che chi si occupa non solo di employer branding in azienda ma anche più in generale chi si occupa di risorse umane deve tenere in considerazione perché è un dato che fornisce indicazioni sullo stato d'animo dei potenziali candidati ai quali sarà diretta la comunicazione dell’employer value proposition aziendale. Una forte sfiducia nella possibilità di trovare lavoro, porterà come conseguenza la ricerca da parte di coloro che la esprimono di aziende che siano in grado di assicurare principalmente la sicurezza del posto di lavoro. Ma non è detto che siano questi i candidati corretti per la mia azienda. E allora capire come viene interpretata l’azienda da parte di questi candidati può risultare una ulteriore informazione da tenere in considerazione per comprendere come si posiziona l’employer brand aziendale nello scenario competitivo del mondo del lavoro, anche rispetto ai competitor più diretti. Se scopro che il profilo del candidato che attualmente vorrebbe lavorare nella mia azienda mira alla sicurezza del posto di lavoro e ad un buon equilibrio tra lavoro e vita privata mentre il candidato che vorrebbe lavorare presso un mio competitor è una persona che ricerca la sfida, la competizione e la possibilità di crescita professionale, probabilmente dovrò fare una seria riflessione sul posizionamento della mia azienda nel mercato del lavoro e, soprattutto, sulla mia probabile incapacità di attirare le persone più cariche di valore.

Di estremo interesse poi l’analisi della fiducia nel lavoro per area geografica che riporta una fotografia istantanea della condizione del lavoro e dell’occupazione nel nostro Paese. Infatti, mentre al Nord, che ha il tasso di disoccupazione più basso in assoluto in Italia con il 4 per cento (fonte: Istat, rilevazione sulla forza lavoro in Italia, I trimestre 2008), la percentuale di persone persone che ritengono sia oggi più semplice trovare lavoro è del 18 per cento in crescita di un punto rispetto all’anno precedente, al Centro ma soprattutto nel Sud si è più pessimisti.

L’indice di sfiducia che è del 39,2 per cento su base nazionale al Centro è del 42,3 per cento mentre al Sud, che con un tasso di disoccupazione del 13 per cento è la maglia nera italiana, arriva a superare il 47 per cento con punte di particolare disagio economico e sociale in regioni come la Calabria, che si conferma anche per il 2008, la regione con il maggiore indice di sfiducia della penisola, con il 67,7 per cento degli intervitati che vede nera la possibilità di trovare un’impiego. Sono dati particolarmente significatici e che riferiti al sud diventano particolarmente drammatici se analizzati in merito alla sola componente femminile dove non è tanto indicativo il tasso di disoccupazione, pari al 17,4 per cento quanto il tasso di inattività che nel Mezzogiorno è pari, per le donne, al 62,9 per cento testimoniando tutta la difficoltà di entrare a far parte a pieno titolo nel mercato del lavoro.

D’altra parte è anche vero che nel Mezzogiorno potremmo avere a fine anno fino a 20 mila nuovi occupati in meno di quanto preventivato ad inizio anno. A lanciare l’allarme occupazione al sud è stato lunedì scorso 15 settembre il segretario generale di Unioncamere Giuseppe Tripoli, durante la prima giornata di presentazione dei dati del sistema informativo Excelsior sulla formazione e l’occupazione, messo a punto dal ministero del Lavoro e dall’Unione delle Camere di Commercio, dal quale emerge come le grandi imprese registrino quest’anno una diminuzione del numero di occupati pari allo 0,2% e che, se vogliamo un po’ a sorpresa, a reggere il ritmo delle assunzioni in Italia nel 2008 sono soprattutto le piccole e medie imprese che confermano infatti la creazione di circa 100 mila nuovi posti di lavoro (+1,5%). Quanto ai settori, l'occupazione continuerà a crescere soprattutto nei servizi (+1,3 per cento) e meno nell'industria (+0,6 per cento).

Per il presidente di Unioncamere, Andrea Mondello l'indagine conferma che il nostro sistema produttivo nel suo complesso ha la volontà di reagire alle crescenti difficoltà congiunturali. Resta però ancora grande lo spazio da colmare tra i suoi fabbisogni di capitale umano di qualità e il sistema della formazione.

E proprio quello della formazione è l’altro grave problema che è emerso dal rapporto Excelsior. In particolare si è parlato di un sistema della formazione soprattutto universitaria che sembra disorientare le imprese al punto che queste ultime riconoscono sempre meno valore ai titoli formali. I 2.500 corsi di laurea esistenti pochi anni fa sono diventati 5.500 e questo confonde le aziende che non riescono più a misurare le reali competenze acquisite dai giovani. Di fronte a questa situazione, ha dichiarato Giuseppe Tripoli, non possiamo stupirci del fatto che il sistema produttivo, nel momento in cui ha bisogno di reperire nuovo personale, si rivolga prioritariamente ai canali non formali, come quello della segnalazione da parte di altre persone. E in effetti i contatti personali risultano essere la terza modalità più usata per la ricerca di lavoro prima ancora degli annunci di rpq sui quotidiani, con il 48,7 per cento tra i 5.040 intervistati dell’indagine 2008 della "Best100, le aziende preferite dagli italiani" che dichiara di preferire i contatti diretti come modalità di ricerca di nuove opportunità professionali.

Lavoro: i paradossi del calo della disoccupazione.

In tema di lavoro, vi segnalo un articolo di Tito Boeri apparso su Affari&Finanza di La Repubblica del 15 settembre 2008.

“Negli ultimi dieci anni in Europa la disoccupazione è scesa notevolmente, anche quella di lunga durata. Eppure, i sondaggi evidenziano un crescente malcontento per le condizioni di lavoro. Perché? Le riforme degli anni Novanta hanno creato un mercato del lavoro a due velocità, che produce pesanti asimmetrie nelle carriere, con tutti i rischi concentrati sulle spalle degli assunti con contratti atipici. La risposta non è un ritorno al passato, ma una decentralizzazione maggiore delle negoziazioni salariali, legando gli stipendi alla produttività.
In Europa si è realizzato un vecchio sogno, che però si sta trasformando sempre più in un incubo. Il sogno era descritto nel Trattato di Roma del 25 marzo 1957: “La Comunità ha il compito di promuovere nell'insieme della Comunità, (…), uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale (…), un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”.


IL SOGNO EUROPEO REALIZZATO...
Nell'ultimo decennio in Europa la disoccupazione è scesa a un livello mai visto da venticinque anni a questa parte. Oggi, nell’Europa dei 15, vi sono quasi 4 milioni di disoccupati in meno che nel 1996. Anche la disoccupazione di lunga durata è quasi dimezzata: negli anni Novanta, la metà di coloro che cercavano lavoro restava disoccupata per oltre un anno, ora non accade più.Non è l’effetto collaterale di una mancata partecipazione al mercato del lavoro, ma rispecchia l’aumento del tasso medio di occupazione nei 15 paesi membri, cresciuto del 6 per cento negli ultimi dieci anni. È, del resto, l’unico settore in cui vengono rispettati gli ambiziosi obiettivi di Lisbona. È drasticamente diminuito anche il numero di coloro che sono eternamente in bilico tra occupazione e disoccupazione e che, stufi e frustrati, smettono addirittura di cercare un lavoro, convinti che per loro non esistano possibilità.Sono proprio quei paesi in cui inizialmente si registrava un tasso di disoccupazione più elevato, che hanno ottenuto il calo più sensibile.Indagini cross-section sui tassi di disoccupazione dell’Europa dei 15 (Nuts II) mostrano che la dispersione dei tassi di disoccupazione tra settori nelle regioni europee è fortemente diminuita come risultato di una riduzione della varianza sia tra paesi che all'interno dei paesi.E questo è senz’altro un progresso sul cammino di quella coesione sociale, auspicata dai governi sin dal trattato di Roma del 1957. Le condizioni del mercato del lavoro delle regioni europee sono, del resto, sempre meno differenziate.

…SI TRASFORMA IN UN INCUBO
I governi europei non hanno tuttavia capitalizzato i successi ottenuti sul mercato del lavoro. Proprio quei governi e quelle coalizioni che hanno reso possibile la creazione di milioni di posti di lavoro non sono stati riconfermati dagli elettori. Il governo Berlusconi del 2001-2006 ha creato 1,3 milioni di posti di lavoro in cinque anni, ben più di quanti promessi in campagna elettorale. Il che non gli ha tuttavia evitato il crollo di popolarità e la conseguente sconfitta alle elezioni del 2006. Il governo Prodi del 2006-2008 ha avuto una vita molto breve, nonostante abbia creato in meno di due anni 400mila nuovi posti di lavoro. José Maria Aznar, nel 2004 ha perso le elezioni spagnole nonostante avesse dimezzato la disoccupazione e creato quasi 5 milioni di posti di lavoro durante il suo mandato.I sondaggi evidenziano anzi un crescente malcontento per le condizioni di lavoro, proprio in quei paesi che hanno registrato la riduzione più significativa dei tassi di disoccupazione.

PERCHÉ?
Perché il sogno europeo si è trasformato in un incubo? La spiegazione più semplice potrebbe essere che il calo della disoccupazione sia dovuto a un fenomeno demografico, e che non dipenda dai cambiamenti dei livelli di occupazione di determinati gruppi socio-economici. In Europa la popolazione invecchia e sono soprattutto i giovani, più dei vecchi, a sperimentare il dramma della disoccupazione. Un’Europa che invecchia potrebbe, di conseguenza, evidenziare un basso tasso di disoccupazione semplicemente perché è cambiata l’età della sua forza lavoro. Tuttavia, questa semplice spiegazione non è sufficiente: può, al massimo, spiegare una minima parte, forse un decimo, del calo della disoccupazione, che si è verificato in tutte le fasce d’età. Neanche l’altro importante fenomeno demografico avvenuto in Europa nell’ultimo decennio, l’immigrazione su larga scala, riesce a spiegare esaurientemente l’enorme diminuzione del tasso di disoccupazione. Caso mai dovrebbe essere il contrario: un maggior numero di immigrati avrebbe dovuto incrementare il numero dei disoccupati. In effetti, il tasso di disoccupazione è più elevato tra gli immigrati che tra i nativi dell’Europa dei 15.Per capire cosa è avvenuto in Europa e perché, paradossalmente, i suoi cittadini sono scontenti, nonostante la sensibile riduzione della disoccupazione, dobbiamo andare al di là dei dati di stock del mercato del lavoro e osservarne i flussi.La prima cosa da notare è che la disoccupazione è diminuita nonostante l’aumento dei flussi della disoccupazione in entrata (flussi calcolati rispetto alla popolazione a rischio, cioè popolazione in età di lavoro meno i disoccupati). In altri termini, è stato principalmente l’aumento dei flussi della disoccupazione in uscita che ha determinato il calo della disoccupazione in Europa. In secondo luogo, si può notare un aumento di mobilità della forza lavoro tra gli Stati europei, che risulta evidente, dividendo gli indici di mobilità per le matrici di transizione, che mappano i flussi attraverso i mercati del lavoro dei principali paesi. Degno di nota il fatto che l’incremento della mobilità è stato più forte nei paesi in cui il calo della disoccupazione è risultato più marcato.

SONO STATE LE RIFORME
La situazione del mercato del lavoro in Europa appare oggi ben diversa dalle condizioni sclerotiche dei primi anni Novanta. Nel 1994 il Jobs Study realizzato dall'Ocse, un autorevole rapporto commissionato dal G7, affermava: “Nella rigida Europa (…) l’elevata incidenza di disoccupazione di lunga durata è collegata con i bassi flussi della disoccupazione in entrata”.Perché è avvenuta quest’inversione di rotta, che ha trasformato un’Europa rigida in un’Europa mobile? Il fattore che ha determinato l’aumento dei flussi del mercato del lavoro sembra essere stato quello delle riforme della legislazione in tema di protezione del lavoro. Durante gli anni Novanta le riforme più importanti hanno ridotto il costo dei licenziamenti: mentre nel periodo 1986-90 vi erano state, nell’Europa dei 15, solo quattro riforme in materia, tra il 1996 e il 2000 ne sono state realizzate ben sedici. Gran parte di queste riforme sono state marginali: si sono limitate a ridurre la protezione del lavoro per i nuovi assunti, aumentando così il numero dei contratti a tempo determinato e introducendo nuove forme di contratti atipici, più flessibili. Ciò ha radicalmente trasformato le condizioni di ingresso nel mondo del lavoro. Nei paesi dove esistono norme severe, che regolamentano il licenziamento di lavoratori assunti a tempo indeterminato, gran parte delle nuove assunzioni viene fatta ricorrendo ai contratti atipici, molto flessibili. Per esempio, in Spagna, il passaggio dalla disoccupazione al lavoro di 9 persone su 10 avviene con contratti a tempo determinato. L’aumento dei flussi in uscita dalla disoccupazione è, in Europa, ampiamente collegata a queste nuove forme di assunzioni.Il guaio è che invece di essere solo un modo diverso per entrare nel mondo del lavoro, questi contratti sfociano facilmente in un binario morto: la probabilità che, nel giro di un anno, il contratto a tempo determinato si trasformi in un contratto a tempo indeterminato è invero molto bassa, nell’ordine di 1su 20 o 1 su 10. In altri termini, queste riforme hanno creato un mercato del lavoro a due velocità, che produce pesanti asimmetrie nelle carriere, con tutti i rischi concentrati sulle spalle degli assunti con contratti atipici. Basandosi sulle matrici di transizione si può prevedere che, in futuro, fino a un terzo delle assunzioni avverranno con contratti flessibili.

IL NUOVO MERCATO DEL LAVORO
Il malcontento degli europei verso le nuove regole del mercato del lavoro dipende strettamente da questa nuova, apparentemente meno favorevole, combinazione rischi-benefici. Il mercato del lavoro sta diventando più rischioso, il che significa perdita di benessere per i lavoratori che sopportano tale rischio, a meno che quest’ultimo non venga compensato da rilevanti benefici. Ovunque in Europa si registrano crescenti pressioni, affinché lo Stato si impegni seriamente a difendere i salari. Pressioni che possono anche essere interpretate come richieste di compensazione, perché nessuno può dire di sentirsi completamente protetto. Persino gli insider ormai temono di poter perdere il loro lavoro.Vi sono forti pressioni affinché si torni indietro. Ma dopo aver ridotto la partecipazione dello Stato nella difesa del lavoro, sarebbe un errore permettere ai governi di intervenire nelle negoziazioni salariali. Ciò che ha fatto recentemente la Germania, vale a dire imporre salari minimi, specifici per i diversi settori, espone i governi al rischio di pressioni sempre più insistenti da parte delle lobby nazionali e al pericolo di un’escalation di sfide concorrenziali tra le aziende. E non esistono ragioni di sorta per reintrodurre una politica dei redditi, sia pur in forma blanda, come quella adottata da molti paesi europei in vista dell'ingresso nell’Unione monetaria. Una politica centralizzata dei redditi non è, in effetti, uno strumento appropriato nell’ambito dell’Unione Europea, perché gli choc macroeconomici sono, per loro natura, più regionali o settoriali. È il motivo per cui il sistema di relazioni industriali, basato su organizzazioni sindacali nazionali, non è adatto per affrontare la nuova domanda microeconomica di flessibilità.La miglior risposta che si può offrire alle paradossali preoccupazioni dimostrate dagli europei nei confronti del calo della disoccupazione è quella di decentralizzare ancora di più le negoziazioni salariali, legando gli stipendi alla produttività. Certo, aumenta il rischio, perché il passaggio da un impiego all’altro comporta, in genere, una forte perdita salariale, mentre i contratti collettivi nazionali prevedono scatti automatici. Cambiare lavoro o restare per qualche tempo disoccupati significa, in quest’ottica, non riuscire a migliorare il proprio reddito. Si possono, però, proporre buone combinazioni rischi-benefici, collegando strettamente i salari alla produttività settoriale. Se il cambio di lavoro comportasse l’ottenimento di buoni risultati, ecco che il passaggio da un impiego all’altro aumenterebbe il reddito invece di diminuirlo.Allo stesso tempo, è assolutamente necessario far qualcosa per neutralizzare il crescente dualismo tra lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato, presente in quasi tutti i mercati del lavoro europei. Costa molto caro alla società perché disincentiva dall’accumulare capitale umano: non si investe, infatti, nella formazione dei lavoratori con contratto a termine, altrettanto quanto in quella dei dipendenti. Sarebbe auspicabile mettere in atto una politica che offrisse reali prospettive di carriera ai giovani, riformando le leggi di protezione del lavoro. Oggi, quando scade un contratto a termine, non esistono prospettive di lungo respiro. I governi dovrebbero promuovere una legislazione che preveda il graduale inserimento definitivo del giovane, eliminando così l’esistenza di un mercato del lavoro a due velocità. Sarebbe opportuno introdurre garanzie, sotto forma di indennità, che dovrebbero aumentare con l’età, qualora il lavoratore abbia prestato la sua opera con una certa continuità.

DESTARSI DALL’INCUBO
E infine, se gli europei sono scontenti, nonostante il calo della disoccupazione, ciò è dovuto anche al fatto che a maggior occupazione non corrisponde maggior produttività, ma anzi il contrario: più cresce l’occupazione, più cala la produttività. E ciò non permette ai lavoratori di guadagnare di più, nonostante i maggiori rischi cui sono esposti. L’Europa, infatti, accusa un forte ritardo nel cammino delle riforme del mercato del lavoro. I governi devono assolutamente resistere alle pressioni, sempre più insistenti, affinché si ritorni ai vecchi sistemi, che avrebbero effetti deleteri sull’occupazione; per aumentare occupazione e produttività bisogna abbandonare i vecchi schemi e fare esattamente il contrario. Ormai, l’Europa è in mezzo al guado e deve a tutti i costi raggiungere l’altra riva, introducendo sistemi che assicurino impieghi più stabili, ma decentralizzando le negoziazioni, per legarle sempre più alla produttività.”

Il lavoro è solo flessibile. Al sistema seve flexicurity” di Tito Boeri, Affari&Finanza de La Repubblica del 15 settembre 2008.

martedì 16 settembre 2008

Employer branding: l'inarrestabile discesa della carriera in banca.

Tutti i quotidiani di oggi, finanziari e non, riportano in grande evidenza di come la Federal Riserve abbia lasciato al suo destino la quarta banca d’affari americana, uno dei marchi più prestigiosi della finanza a stelle e strisce, la Lehman Brothers che ieri ha chiesto l’ammissione al Charter 11, ovvero alla procedura di fallimento. La notizia choc ha fatto il giro del mondo, insieme alle cifre impressionanti del più grande crac della storia: 613 miliari di dollari di debito conosciuto, circa dieci volte quello della Enron.

Il fallimento di Lehman Brothers non è solo lo sviluppo della crisi dei mutui immobiliari americani ad alto rischio, che ha portato al salvataggio di Bear Stearn da parte della Fed, poi all’assunzione diretta da parte del tesoro americano dei rischi su 5 mila miliardi di mutui di Fannie e Freddie. Il fallimento di Lehman è la sparizione di uno dei nomi storici dell’investment banking americano e mondiale. E avviene mentre un altro di questi colossi storici, Merril Lynch, prima casa di brokeraggio finanziario americana, viene rilevato da Bank of America prima che sprofondi a propria volta, mentre AIG, il colosso assicurativo americano, ha a sua volta ha chiesto aiuto al Tesoro.

Per il mondo delle banche e della finanza è una nuova doccia fredda, che si ripercuoterà sui segni già evidenti di frenata dell’economia reale. La crisi finanziaria più grave da un secolo l’ha definita l’ex banchiere centrale Alan Greenspan. L’Europa, dal canto suo, che già si muoveva al rallentatore non aveva bisogno certo di questa ulteriore frenata – sono 6.000 i dipendenti del colosso americano che resteranno a casa in Europa - mentre già si scommette su quale possa essere la prossima vittima tra le banche europee.

L’impatto, almeno per il momento, sulle attività di casa nostra sembra limitato, anche se fa riflettere la dichiarazione dell’amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo che si è detto preoccupato dell’impatto che la bancarotta di Lehman potrà avere sull’intero sistema finanziario.

Questa lunga premessa non tanto perché oggi abbia deciso di stravolgere la natura del blog occupandomi di finanza piuttosto che di capitale umano, quanto perché mi preme mettere in evidenza come, puntualmente, fasi e squilibri dell’economia, abbiano le loro ripercussioni anche sul tema del quale in questo contesto si parla, ovvero sull’appetibilità delle aziende come employer di riferimento.

Ancora una volta infatti il mondo delle banche e più in generale della finanza esce penalizzato dai risultati dell’indagine 2008 della Best100, segno evidente che esiste un legame molto stretto tra accadimenti aziendali e orientamento al lavoro, che dimostra probabilmente una maturità del mercato del lavoro, riferita alla capacità di studenti e professional di orientarsi nel mondo del lavoro, più elevata di quella che normalmente ci si potrebbe aspettare. Il mondo della finanza insomma è la cartina al tornasole di come diplomati e laureati siano in grado di orientare le proprie preferenze verso aziende che operano in segmenti più solidi, penalizzando invece quelle che operano in un contesto più a rischio.

E a rischio è dovuta sembrare oggi, ai 5.040 intervistati dell’indagine 2008, una carriera nel settore della finanza. Sono solo 5 su un totale di 793, gli istituti di credito citati tra le prime cento aziende maggiormente ambite nelle quali lavorare, segno evidente di un malessere che attanaglia quello che una volta era la professione sognata da milioni di italiani, un lavoro in banca. Fu così anche nell'indagine 2004 dopo gli scandali Cirio e Parmalat che che l'anno prima coinvolsero alcune tra le maggiori banche italiane e che mise in ginocchio non solo tanti risparmiatori, ma anche l’employer brand degli istituti bancari più coinvolti. Ma se allora, di fronte alla debacle interna si cercava un'alternativa guardando fuori, ai grandi gruppi bancari internazionali, oggi non è più così. Insomma il mitico posto in banca, già per certi versi appannato da qualche anno, per il 2008 sembra essere definitivamente tramontato negli obiettivi di carriera di diplomati e laureati, per i quali, le banche perdono sempre più appeal.

Tra i 5 gruppi bancari presenti all’interno della classifica delle prime 100 aziende maggiormente ambite nelle quali lavorare Unicredit, che conquista la palma d’oro di azienda preferita di settore, scende di un gradino, dalla 13^ alla 14^ posizione in classifica generale, Intesa San Paolo che perde maggiori consensi scendendo al 19° posto dalla 12^ posizione dello scorso anno mentre il Monte dei Paschi di Siena passa dalla 72 posizione alla 79.

Unico caso in controtendenza sembra essere quello del gruppo Bnl Bnp Paribas che capitalizzando il nuovo corso post acquisizione proietta la banca in 36^ posizione rispetto alla 61^ dello scorso anno e in certa misura dell’accoppiata Mediobanca-Generali, nuovo ingresso la prima al 93° posto e prima e unica azienda del settore assicurativo presente nella classifica delle 100 aziende maggiormente ambite la seconda.

Certo, a molto hanno contribuitoanche le maxi aggregazione realizzate negli ultimi due anni, Unicredit-Capitalia, Intesa-San Paolo, Bpu-Banca Lombarda, Mps-Antonveneta, Popolare di Verona-Bpi, che hanno generato complessivamente 14 mila esuberi su un totale di quasi 340 mila addetti, con fuoriuscite che anche se sempre volontarie e incentivate, hanno comunque minato il clima di fiducia nel settore.

Ad incrementare la perdita di appeal anche la moderazione salariale che ha registrato il settore negli ultimi anni, che se ha contribuito a ridurre lo svantaggio competitivo con gli altri Paesi europei, come riconosce la stessa Abi, ha accentuato dall’altra quella sensazione di declino che si è fatta largo nella categoria per effetto delle trasformazioni dell’ultimo decennio, come l’informatizzazione dei sistemi, la diffusione dell’home banking, i mutamenti introdotti nell’organizzazione del lavoro, soprattutto ml’adozione di sistemi incentivanti di retribuzione, con una parte variabile legata agli obiettivi sempre più preponderante, che hanno avuto un forte impatto sulla qualità della vita allo sportello.

Le origini di questo malessere nei lavoratori vanno ricercate poi nella scarsa valorizzazione della propria esperienza che un istituto bancario oggi è in grado di offrire ai propri dipendenti, nell’esclusione dai momenti decisionali, sempre più sentita con lo spostamento dei centri decisionali dovuto alle aggregazioni, nell’assenza di criteri di carriera univoci, nel ritmo e lnella pressione lavorativa legati allo stress da performance. Insomma i bancari si sentono sempre più passacarte e sempre più intercambiabili. Quasi operai in una catena di montaggio virtuale, in cui non è più importante la competenza e il rapporto con il cliente ma dove conta il budget, il risultato.

E’ da questi spunti che il mercato del credito deve ripartire se vuole intraprendere un’azione volta a recuperare l’immagine del settore e del lavoro ad esso associato, tappa necessaria per fermare quel declino verso questo tipo di carriera che sembra segnare diplomati e laureati senza alcuna distinzione.

L’analisi del settore in termini di appetibilità dell’employer value proposition che è in gardo di offire oggi a studenti, neolaureati e professional, individua una categoria a rischio di estinzione. Nell’immaginario collettivo non c’è più il sogno del posto in banca, quell'impiego ambitissimo perché assicurato a sicurezza e privilegi, un lavoro facile e uno stipendio prestigioso con quattordicesima e quindicesima, pomeriggio libero e settimana corta, premi e benefit da favola. Tutto questo ormai è acqua passata. E le domande di esodo da parte dei lavoratori del settore che arrivano a superare di gran lunga il numero atteso dai piani industriali sia per Unicredit che per Intesa San Paolo, per fermarsi solo alle due più grandi realtà italiane, sono la spia più tangibile di un malessere che non può essere trascurato, pena la sempre minore appetibilità di un impiego nel settore da parte delle giovani leve e sempre maggiori costi da parte delle aziende per ricercare e sostituire il personale mancante, soprattutto quello di sportello, in rapporto al quale non è per nulla facile riuscire a differenziare l'offerta di un gruppo da quella di un'altro, con il rischio evidente di un ulteriore appiattimento verso il basso dell'identità di una professione che è mutata molto negli ultimi anni.

mercoledì 3 settembre 2008

Best100, 2008: la classifica.

Ferrari e Barilla si riconfermano le aziende preferite dagli italiani, quelle nelle quali, potendo scegliere, si vorrebbe lavorare, in un contesto più generale nel quale le preferenze vanno sopratutto verso le grandi aziende dell'industria e del largo consumo, quelle per intenderci che affiancano ad un brand di prestigio anche un business solido in grado di assicurare la certezza del posto di lavoro che continua a rimanere una delle prime fonti di preoccupazione per gli italiani. Sono questi in estrema sintesi i principali risultati che emergono dall'analisi delle risposte dei 5.040 intervistati che hanno partecipato all'indagine 2008 della Best100, le aziende preferite dagli italiani, realizzata da PeopleValue e giunta quest'anno alla sua VII edizione.

La Ferrari conquista il podio assoluto grazie al plebiscito di consensi che ottiene da parte della popolazione maschile, mentre Barilla ottiene la conferma del suo secondoposto sopratutto grazie all'attrazione del suo employer brand verso la popolazione femminile che la eleggono azienda preferita dalle donne. Eni conquista il terzo posto scalzando la Fiat che risulta in leggera flssione, al quinto posto, in linea con le generali difficoltà che incontra in questo momento, anche a livello industriale, tutto il comparto dell'automotive.

Al quarto posto sale Microsoft rispetto al settimo della passata edizione che conquista il podio di azienda più ambita del settore dell'Information Technology, vincendo il duello con Google che pur conquistando una posizione si ferma al quindicesimo posto nelle preferenze di studenti e professional.

Al sesto e settimo posto due aziende del settore del largo consumo, Procter&Gamble, che perde una posizione rispetto all'edizione dello scorso anno e Ferrero che invece ne conquista una, seguite da Enel all'ottavo posto, Mediaset al nono e Vodafone al decimo.

Il settore finanza registra quest'anno una complessiva perdita di consensi, con il gruppo Unicredit che conquista la leadership di settore però al quattordicesimo posto quindi in flessione rispetto alla dodicesima posizione dello scorso anno, davanti a Intesa San Paolo che invece perde consensi, passando dalla dodicesima posizione alla diciannovesima di quest'anno. Le uniche due realtà di settore in controtendenza appaiono Generali, in crescita al trentaduesimo posto rispetto al quarantaquattresimo dello scorso anno e il gruppo Bnl Bnp Paribas che sale dal sessantunesimo al trentaseiesimo posto nella classifica delle aziende maggiormente ambite nelle quali lavorare, indice che la cura francese ha, almeno per quanto riguarda l'employer branding aziendale, lasciato il segno.

I consensi maggiori vanno come già anticipato alle grandi multinazionali che operano nei settori dell'industria, con una sorpresa targata Finmeccanica, che passa dal trentaduesimo al ventiquattresimo posto, e da alcune sue controllate che acquistano posizioni o entrano di prepotenza nella classifica delle aziende maggiormente ambite nelle quali lavorare, come Alenia Aeronautica, al quarantaquattresimo posto riespetto al settantacinquesimo della passata edizione o Agusta Westland, nuovo ingresso in settantaseiesima posizione.

Nel mondo della consulenza la palma d'oro di azienda più ambita va a Mckinsey&Company, al ventunesimo posto rispetto al ventottesimo dello scorso anno, davanti ad Accenture, al ventiduesimo posto rispetto al ventiseiesimo della passata edizione. Molto più distanziate altre realtà come Kpmg, quarantacinquesima posizione, Deloitte, sessantottesima, PWC ed Ernst&Young rispettivamente in ottantaduesima e ottantatreesima posizione.

Bene anche le performance delle aziende che operano nei settori dell'alimentare e del largo consumo e che vedono oltre alle già citate Barilla, Procter&Gamble e Ferrero, realtà quali Coca Cola, che sale dal venticinquesimo all'undicesimo posto, Nestlè al dodicesimo posto, Unilever sedicesimo e L'Orèal al diciottesimo.

Una generalizzata perdita di appeal invece registrano, forse in linea con l'attuale difficoltà che registra il ciclo economico mondiale, le aziende che operano nei settori della moda e del lusso, così pure le aziende del comparto farmaceutico, forse perchè, almeno per quanto riguarda l'Italia non si fa ormai quasi più ricerca e innovazione nel settore.

Da segnalare come nuovi ingressi Samsung in quarantaseiesima posizione e Piaggio in sessantatreesima.

Best100, le aziende preferite dagli italiani.
VII edizione - anno 2008
Rank / Azienda / Preferenze
1. Ferrari 12,98%
2. Barilla 8,27%
3. Eni 7,08%
4. Microsoft 6,49%
5. Fiat 5,06%
6. Procter&Gamble 4,40%
7. Ferrero 4,35%
8. Enel 4,23%
9. Mediaset 3,75%
10. Vodafone 3,51%

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Best100, 2008: Ferrari ancora sul podio.

Anche per il 2008 è la Ferrari a salire sul podio dell'azienda preferita dagli italiani, quella nella quale, potendo scegliere, si vorrebbe andare a lavorare.

Ma qul è il segreto dell'azienda di Maranello? Perchè a giustificare la fama della Ferrari non bastano le vittorie in Formula 1 ne la passione di decine di migliaia di tifosi. Il segreto parte dalle tute degli operai del Cavallino, rigorosamente rosse, che un migliaio di artigiani del lusso non toglie mai: operai, collaudatori e magazzinieri entrano in fabbrica e tornano a casa in tenuta da lavoro. Ed è proprio in questo spettacolare spirito di squadra, più che nella bellezza delle auto o nelle vittorie sportive, il fascino della Ferrari.


La vera forza dell'azienda, che gode del vantaggio di avere un brand che da solo trasmette una grande emotività, è all'interno dei cancelli, dove la dimsnione industriale lascia spazio all'architettura, al design, alla ricerca continua di soluzioni di benessere per chi lavora. I capannoni sono sostituiti da luminosi padiglioni climatizzati; piante e giardini intercalano le linee di montaggio e le auto più belle sono presenti in ogni reparto per ricordare a tutti, anche a chi si occupa del più ripetitivo dei lavori, qual è il risultato finale della sua attività.

Un bel posto in cui lavorare e un'estrema attenzione ai dipendenti sono i due pilastri della famosa Formula Uomo, il programma voluto dal suo presidente, Luca Cordero di montezemolo al suo arrivo in ferrari nel 1991, che comprende check up medici gratuiti, formazione, un villaggio dedicato al personale, palestre, mense a misura di ristorante e tanto altro, tutto pensato nell'ottica di creare un buon posto in cui lavorare per tutti i poco più di duemila dipendenti dell'azienda, dove la parola d'ordine è una sola: innovazione e coinvolgimento dei dipendenti, anche nelle soluzioni aziendali, dal momento che i collaboratori sono incoraggiati a suggerire soluzioni ai problemi di produzione e di organizzazione.