lunedì 29 ottobre 2007

Engagement, questo sconosciuto in azienda.

"Engagement" è una parola spesso sconosciuta in azienda e il più delle volte ignorata nella practice della gestione delle risorse umane. Il risultato è un forte gap nella moivazione dei propri dipendenti che si riflette non solo all'interno dell'azienda in termini di calo di produttività, stress e tensioni nei rapporti interpersonali, ma anche all'esterno per gli effetti che collaboratori poco motivati possono generare all'immagine dell'azienda come employer di riferimento con il rischio di vanificare le politiche di employer branding adottate per attirare in azienda i potenziali collaboratori di maggior valore.

Secondo il nuovo studio globale di Towers Perrin, il Global Workforce Study 2007, che ha preso in esame un campione di quasi 90.000 lavoratori in 18 Paesi, i dipendenti non credono che le aziende facciano abbastanza per incoraggiarli a fornire un valido contributo al successo dell’impresa.

Mentre i lavoratori dichiarano di voler essere maggiormente coinvolti, solo l’11 per cento degli italiani si sente valorizzato all’interno dell’azienda, il 40 per cento afferma di essere parzialmente stimolato e una percentuale considerevole, il 49 per cento, è moderatamente o completamente demotivato.

Il risultato italiano è in assoluto il più basso sia rispetto al resto d’Europa sia rispetto ai dati internazionali, che dimostrano come il 21 per cento dei lavoratori sia “engaged”.

La causa: il management italiano non comunica sufficientemente con i dipendenti in modo diretto e senza intermediari. Il 22 per cento dei lavoratori, infatti, denuncia la mancanza di apertura e trasparenza.Lo scarso engagement genera un impulso aspirazionale al cambiamento d’azienda. Il 58 per cento dei lavoratori italiani aspira a cambiare posto di lavoro, anche se poi solo il 16 per cento si muove attivamente per cercare di cambiarlo, con quali effetti sulle politiche di employer branding e di retention è facile immaginare.

Un impatto decisivo è dato dalla percezione del manager e dall’immagine aziendale. Il senior management ha una forte influenza sulle persone in termini di trasparenza percepita e coinvolgimento e ha la responsabilità di motivare le proprie risorse. Se fattori organizzativi, lavorativi e personali influenzano l’approccio del dipendente, anche per le aziende italiane è prioritario misurare il livello di engagement, individuare le best practice del mercato, implementare piani per incrementare il contributo delle risorse.

L’azienda che “fa la differenza” è quella che si distingue per la capacità di attrarre, trattenere il dipendente e motivarlo, infatti per i lavoratori italiani una buona gestione del personale è al top della “classifica” nella scelta del posto di lavoro.Ma c’è ancora molto da fare per creare un ambiente nel quale le persone siano effettivamente motivate. A livello di trasparenza, empatia, visibilità e efficacia nella comunicazione, i dipendenti si aspettano di più dal senior management, a cui chiedono più coinvolgimento e maggiore orientamento al benessere dello staff. Le leve HR vincenti per motivare il personale “performante” sono inoltre influenzate, sempre secondo l'indagine di Towers Perrin nche dal mix di formazione e possibilità di carriera. I lavoratori italiani puntano a migliorarsi e a cercare di sviluppare le proprie competenze professionali, un dato questo registrato anche nell'indagine Best100, le aziende preferite nelle quali lavorare nella sui VI edizione, quella del 2007, la formazione e la crescita professionale sono al primo posto nei fattori motivanti la scelta di un'azienda per il 76,8 per cento degli intervistati prima ancora di stipendio e benefit.

Non si può sottovalutare l’impatto di una forza lavoro motivata sulle performance di un’azienda. Su tutti gli aspetti – customer satisfaction, crescita dei ricavi, contenimento dei costi, profittabilità, innovazione – i lavoratori veramente motivati fanno la differenza rispetto a quelli coinvolti in misura marginale o a quelli disillusi e demotivati perchè non esiste innovazione, tecnolgia o organizzazione aziendale che non abbia bisogno di un supporto fatto di motivazione, impegno, capacità e volontà delle persone. E nulla può sviluppare competitività quanto motivazione, preparazione e volontà di ottenere risultati. Doti queste che risiedono unicamente nelle risorse umane.La vera sfida per manager e aziende è quindi quella di riconoscere il valore delle risorse, gestirle in modo trasparente, valorizzarle e coinvolgerle per allineare i propri collaboratori agli obiettivi di business dell'azienda.

giovedì 25 ottobre 2007

I talenti vale la pena scoprirli giovani.

Vi segnalo un interessante articolo pubblicato su Il Corriere della Sera del 19 ottobre 2007 da Severino Salvemini, docente di organizzazione aziendale alla Bocconi, che riprende il tema dei talenti dopo l'intervento di Pier Luigi Celli sullo stesso tema. Mentre Celli definisce quello del talento un mito da sfatare al più presto Salvemini ne esalta invece il valore intangibile attraverso una interessante e originale analisi della psicologia del talento.

Il gioco dei talenti, vale sempre la pena scoprirli di Severino Salvemini.
"I talenti, a prescindere dall' età e dall' anzianità. Purosangue come Ribot o Varenne che devono essere lasciati a briglie lunghe, coccolati con modalità personalizzate, perché solo così possono produrre grandi prestazioni. E' l' eccellenza dei pochi contro la normalità dei molti. Ed è scontato che l' insieme aziendale, il ventre più conformista e normalizzato, soffra questa nobilitazione e voglia spuntarne gli eccessi. Esattamente come alcuni anni fa la massa guardava con sospetto e diffidenza gli alti potenziali, aspettando solo qualche loro inciampo di "malagestione" per sterilizzare la qualifica di fermenti attivi e per includerli nella più rassicurante maggioranza silenziosa. Primedonne difficili da tollerare, i talenti si annoiano in fretta. Sono nomadi dentro: quando hanno l' impressione di aver raccolto tutto ciò che c' era da imparare passano altrove, dannati da coloro che rimangono a processare la banale routine. E ne sanno qualcosa i capi del personale che si irritano per non poter applicare le politiche standardizzate di gestione delle risorse umane. Pretendono ingaggi da favola e remunerazioni correlate al riconoscimento oggettivo del valore del loro contributo. Infedeli al sistema aziendale, sono imprenditori di loro stessi, credono in una carriera soggettiva (autodiretta e non pianificata dall' organizzazione) e scommettono sulle proprie relazioni nella comunità professionale. Per la notorietà che viene offerta loro dai mezzi di comunicazione, si ritrovano sovente a ricoprire posizioni di vedette. Lo sfruttamento economico di tale notorietà, non diversamente dallo star system che pensiamo operi solo nel cinema o nell' entertainment, condiziona ciò che possiamo chiamare l' economia della celebrità: 1) essi sono spesso eletti a rango di persone da emulare; 2) la capitalizzazione della loro fama è soggetta a fenomeni di autorafforzamento, essendo spesso in grado di amplificare il proprio score e di filtrare invece i risultati negativi controproducenti; 3) essi selezionano intelligentemente le occasioni per apparire in modo calibrato agli occhi dell' opinione pubblica e della tribù specialistica di riferimento. Maggiore è la preveggenza nell' assumere giovani talenti non ancora esplosi nello star system e maggiore sarà il valore intangibile che l' impresa finirà per incorporare dalla crescita della risorsa umana. Se invece l' inclusione organizzativa sarà spot, recuperando il professionista da un mercato che già lo ha ampiamente accreditato, il meccanismo sarà molto costoso poiché la stella manageriale verrà strappata ad altre istituzioni a colpi di alte offerte di denaro, innalzando il rischio che poi tale stella non riesca a ripagare l' investimento fatto (i nostri calciatori o artisti contemporanei docent). Chi dice che tutto ciò mal si concilia con il valore dell' equità può avere anche ragione. Ma il talento segue il proprio percorso biologico di eccezione e pretende di essere ricompensato e gestito con modalità significativamente differenziate rispetto al resto delle persone. Il talento ha un giudizio critico dell' uguaglianza come valore sociale: contrariamente al manager solidale che dà importanza a ciò che gli uomini hanno in comune, il manager di talento privilegia ciò che li distingue. Un risultato mostruoso dell' economia moderna? Una deriva egoistica frutto della esasperata battaglia contemporanea per il protagonismo e per la reputazione? Macché! Già nel famoso "Ricchezza delle nazioni" di 150 anni fa, Adam Smith così giustificava la distinzione organizzativa come modalità di apprezzamento del rischio: «nella lotteria perfettamente equa, coloro che estraggono il biglietto vincente devono guadagnare tutto ciò che perdono coloro che estraggono i biglietti perdenti». La possibilità di acquisire la celebrità è dunque il premio per coloro che si distinguono. Tutti poi possono conservare segretamente la fiducia nella buona stella, indipendentemente dai propri talenti. Basta non aspettarsi poi di essere eletto manager dell' anno."
(pubblicato su Il Corriere della Sera del 19 ottobre 2007).

lunedì 22 ottobre 2007

Recruiting su Second Life: opportunità o bluff? (Parte 3^)

Abbiamo visto come prima negli Stati Uniti e poi in Europa il fenomeno di Second Life, sull’onda del suo successo mediatico, abbia investito anche il settore delle risorse umane con l’organizzazione dei primi virtual job meeting seguiti da attività di recruiting vere e proprie condotte dalle singole aziende alle quali peraltro, giova ricordarlo, nel luglio 2007 si è aggiunta anche un’azienda italiana.

Si tratta della Banca Nazionale del Lavoro che ha aperto su Second Life un suo spazio 'informale' – il Bnl Cafè – destinato ad ospitare eventi e iniziative speciali legate all'attività della banca: dalla promozione dei prodotti alla visibilità delle manifestazioni delle quali l’azienda è sponsor come la festa del cinema di Roma o gli internazionali di tennis, fino alle attività di recruiting.

Da questo punto di vista la Bnl è stata la prima azienda italiana ad iniziare attività di recruiting su SL per la ricerca di profili nel settore IT, programmatori e project manager.

L’annuncio, come di consueto, ha ottenuto il suo riscontro mediatico. E’ bastato infatti l’annuncio che la banca avrebbe fatto colloqui di assunzione su Second Life per scatenare il solito delirio giornalistico. Il Sole 24 Ore, La Repubblica, Il Corriere della Sera, solo per citare i maggiori quotidiani nazionali, hanno risposto dedicando grande risalto ad una iniziativa che probabilmente aveva come obiettivo principale proprio questo: ottenere una positiva ricaduta d’immagine sulla stampa, piuttosto che chissà quali aspettative da un’attività di recruiting il cui processo peraltro era abbastanza complesso e per certi versi singolare.

Infatti, per poter sostenere un colloquio di lavoro su Bnl Cafè occorreva prima registrasi nell’area lavoro del sito aziendale della banca e inoltrare il proprio curriculum. Poi, una volta visionato dagli uomini delle risorse umane della banca e solo se giudicato interessante, attendere una mail nella quale veniva specificato ora dell’appuntamento su Second Life e nome della persona che avrebbe fatto il colloquio. Ma, una volta che mi sono collegato al sito di Bnl e ho lasciato il mio CV se questo viene valutato interessante non sarebbe più semplice e immediato ricorrere alla vecchia intervista telefonica per un primo screening con il selezionatore piuttosto che organizzare il primo follow up su Second Life? D’accordo, vogliamo fare i moderni, quelli che stanno al passo coi tempi. Ma allora incontriamoci in chat. Francamente mi riesce difficile comprendere la ratio del meccanismo adottato.

D’altra parte, anche organizzare una presenza fissa e ostante su Second Life avrebbe dal punto di vista di chi scrive poco senso. Al di la del numero degli iscritti, quanti sono realmente i frequentatori abituali di Second Life? E quanti, tra questi, sanno che esistono delle opportunità di recruiting? E, soprattutto, quanti di questi sono su Second LIfe per cercare nuove opportunità di lavoro?

Second Life è un social network di grande impatto ma le sue dimensioni effettive sono molto più piccole di quanto reclamizzato. Se è vero che Second Life ha oltre 9 milioni di iscritti, solo tra i 20 e i 40 mila sono online in un dato momento della giornata e non sono interessati tanto alla ricerca di un lavoro quanto piuttosto ai quartieri a luci rosse e ai negozi in cui si vendono genitali (già, perché l’avatar “modello base” non prevede questi optional) come riportato da una recente indagine di Gartner
che mette in guardia le aziende dalle possibili ricadute negativa di una non corretta presenza sul mondo virtuale.

Tutto questo per dire che su un comunicato stampa suona piuttosto bene dire che si fanno colloqui di assunzione su Second Life, ma tradotto in pratica, di cosa stiamo parlando?

D’altra parte il
Los Angeles Times ha recentemente pubblicato un interessante articolo nel quale ha confermato, dati alla mano, il fiasco di numerose vetrine business aperte sulla nota piattaforma online, tanto da parlare di effetto sboom. Molte aziende che hanno investito pesantemente in Second Life, penso ad esempio a Coca-Cola, si ritrovano ora ad avere concepito spazi virtuali visivamente perfetti, ma desolatamente vuoti.

La stessa Assodigitale, l'Associazione italiana degli operatori digitali, ha voluto investigare il mondo virtuale di Second LIfe e in un suo report emerge come la presenza degli avatar aziendali e soprattutto quella dei visitatori nelle sedi virtuali dei grandi marchi (come Best Buy, Sun Microsystems o Dell) sia effettivamente limitata se non del tutto assente.

Sarà per questo allora che Brian McGuinness, vice presidente di Virtual Aloft, uno dei tanti marchi di Starwood Hotels & Resorts Worldwide ha dichiarato che "Non c'è un motivo convincente per rimanere", nel commentare la decisione aziendale di
chiudere il suo hotel.

Peccato che i media italiani sembrano non essersene accorti, tant’è che ancora il 15 ottobre 2007 sull'inserto Affari&Finanza di La Repubblica, una pagina intera veniva dedicata allo sbarco su Second Life di Generali, riportando numeri senza senso come 9,3 milioni di utenti registrati su Second Life ad agosto ognuno dei quali avrebbe passato 2 ore mezza nel sito in media nel mese!!! o ancora citando come case history proprio il caso di Aloft di Starwood che invece alla data di pubblicazione dell’articolo ha già chiuso i battenti.

Detto questo e al di là delle considerazioni di come i media possano distrocere la realtà di un fenomeno con il rischio di far cadere in errore chi, sulla base delle notizie riportate, decide di mettere in piedi un'attività sul mondo virtuale, non credo che un’impresa possa, allo stato attuale delle cose, investire con profitto in Second Life.

La seconda vita virtuale è in definitiva un ottimo strumento di marketing con il quale osservare la dinamica di alcuni trend giovanili e avere dei feedback interessanti per il marketing aziendale (vi sono comunque altri mondi virtuali come There , Entropia Universe , Barbie Girls, ecc.), anche se l'esperienza Fiat con la community di appassionati raccoltisi attorno al sito della 500 diversi mesi prima del lancio della stessa per dare il proprio contributo con suggerimenti e indicazioni sembra dimostrare che il vero elemento di successo sia quello di riuscire ad integrare al meglio gli strumenti del web 2.0 ovvero di Internet partecipativo nel business aziendale.

Anche dal punto di vista delle risorse umane le cose non sembrano essere diverse. Secondo Warren Ashton, recruiting manager di Microsoft che ha partecipato al primo virtual job meeting organizzato da TMP "è troppo presto per dichiarare il successo della strategia di recruiting su Second Life" anche perché i profili con i quali si entra in contatto sono per la maggior parte molto junior e senza significative esperienze di lavoro alle spalle, come riconosciuto anche da Louis Vong, vice presidente strategie interattive di TMP che riconosce come "il fatto che l’età media su Second Life sia inferiore ai 30 anni si riflette anche sull’età dei partecipanti ai job meeting".

Tutto questo per dire che tanto intellettualismo, strategie marketing estreme e piani di brand-enforcement sul mondo virtuale sono inutili?

No, se l’obiettivo di fondo è quello di andare online per guadagnare l'onore delle cronache off-line e una buona rassegna stampa. Un modo per mostrarsi all'avanguardia insomma, che può avere benefici effetti sul brand aziendale se giocato nel giusto modo, ma che può presentare anche dei risvolti meno interessanti e anzi potenzialmente dannosi all'imagine aziendale.

Ne sa qualcosa l'Ibm, coinvolta proprio in quello che può essere definito il primo sciopero online su Second Life organizzato dai dipendenti italiani con il supporto di lavoratori provenienti da diversi Paesi del mondo. Questo si che può essere definito un successo: uno sciopero virtuale al quale hanno partecipato 1.800 avatar provenienti da Francia, Messico, Israele, solo per citarne alcuni, che hanno dimostrato solidarietà nel sostenere la vertenza dei lavoratori di Vimercate sull’accordo relativo al «premio di risultato». Risultato mediatico? Servito, con articoli su La Stampa, l'Unità, City Milano e Datamanager solo per citarne alcuni.

giovedì 18 ottobre 2007

Recruiting su Second Life: opportunità o bluff? (Parte 2^)

Dopo il successo dei primi virtual job meeting negli Stati Uniti e la continua attenzione che giornali, riviste e tv hanno riservato all’argomento nei primi sei/sette mesi del 2007 sulle nuove opportunità che Second Life avrebbe offerto alle aziende che avessero approcciato al nuovo mondo virtuale, sia in termini di brand enforcement sia per le opportunità fornite da quello che sembrava essere un nuovo canale di sourcing di risorse di valore, ha portato diverse aziende ad esplorare questo nuovo mondo, anche approcciandolo in modo diretto.

E’ il caso della società di consulenza Bain&Company che ha attivato un progetto pilota riservato agli studenti delle sei migliori business school americane con l’obiettivo di esplorare la possibilità di carriera in Bain, consentendo agli studenti di poter scambiare due chiacchiere con il managing director Steve Ellis che per l’occasione, a dimostrazione dell’annullamento delle barriere geografiche consentite da Second Life, era in collegamento da Nuova Dehli.


Grande evento e, ovviamente, grande ripresa mediatica con conseguente ritorno d'immagine per l'azienda, tant'è che alcune aziende specializzate nel marketing digitale, è il caso di Agency.com, hanno realizzato delle campagne di recruiting mirate su Second Life per individuare profili di interesse, sopratutto tecnici e esperti di marketing, anche aziende di lavoro interinale hanno iniziato a pensare ad un approccio, anche di business, al mondo virtuale di Second Life.

E’ il caso di Randstad che ha costruito una propria presenza su Second Life offrendo due tipologie di lavoro: la prima, "assumere avatar" per lavori sul nuovo mondo virtuale con due distinte tipologie di attività: la prima, che viene pagata in Lindend Dollars, la moneta di Second Life, che riguarda ad esempio lavori come commessi in un negozio, la seconda, che viene pagata in euro, connessa invece ad un'attività di animazione della struttura di Abn Amro Bank, società cliente di Randstad, su second Life.

Applicazioni queste che hanno portato più di qualcuno ad affermare che si stava andando incontro all'apertura di un nuovo mercato del lavoro, virtuale e parallelo a quello reale, in grado di fornire opportunità e una valida alternativa a chi fosse in cerca di lavoro.



Agency.com recruiting su Second Life



Randstad recruiting su Second Life.

L’esplosione dell’interesse mediatico nei confronti di Second Life e delle sue applicazioni per la ricerca di personale ha portato a replicare in Francia l’esperienza del virtual joob meeting. Dal 17 al 21 giugno 2007 si è svolto Neo Job Meeting che ha visto la partecipazione di Alstom, Cap Gemini, L’Orèal, Areva e Unilog e che, inevitabilmente, si è portato dietro lo strascico mediatico già sperimentato con successo negli Stati Uniti.



Un servizio della televisione francese su Neo Job Meeting.

Dopo la Francia anche la Spagna muove i primi passi del virtual recruiting su Second Life. Infoempleo ha promosso la prima fiera del lavoro su Second Life dal 15 al 17 ottobre 2007 alla quale partecipano BBVA, Banesto, Ferrovial, Caixa, Acciona, Adecco, Endesa, Accenture, PWC, Deloitte, L’Orèal, Tsystem, Repsol e Cap Gemini.



Virtual Job Meeting di Infoempleo su Second Life.


Cap Gemini su Second Life.

lunedì 15 ottobre 2007

Recruiting su Second Life: opportunità o bluff? (Parte 1^)

Nel nostro Paese si sa le mode arrivano sempre con qualche mese di ritardo. Ci entusiasmiamo quando gli altri hanno già perso interesse. Non fa eccezione Second Life verso cui molte aziende italiane hanno dedicato negli ultimi mesi e alcune stanno ancora dedicando crescenti attenzioni proprio nello stesso periodo in cui le grandi aziende multinazionali che vi hanno già investito stanno riconsiderando le proprie posizioni domandandosi se quello di Second Life sia un affare o un grande bluff.

Proviamo ad inquadrare meglio la vicenda che ha degli impatti sia sulla corporate identity che sull’employer branding.

Second Life è un
mondo virtuale tridimensionale multi-utente online inventato nel 2003 dalla società americana Linden Lab. Il funzionamento è piuttosto semplice: ci si iscrive gratuitamente, si scarica un software (che peraltro richiede buone prestazioni del proprio pc per funzionare oltre ad un collegamento internet veloce) con cui collegarsi al mondo virtuale, si sceglie un nome, si crea il proprio avatar (cioè la propria rappresentazione grafica) e si può iniziare a girare per questa terra costituita da enormi isole e piena di negozi, ristoranti, attività commerciali e aree per adulti.

Tralasciando le applicazioni economiche che al momento non interessano per quello che ci proponiamo di analizzare vale la pena di soffermarsi sul fatto che questo ambiente ha vissuto un vero e proprio boom mediatico nei primi mesi del 2007 negli Stati Uniti sulla scorta del fatto che il mondo virtuale di Second Life avrebbe raggiunto la soglia di 9 milioni di iscritti e di uno studio di Gartner Group che, nel momento in cui è stato pubblicato, prevedeva che entro il 2011 ben l’80 per cento degli utilizzatori di Internet avrebbe avuto una qualche forma di seconda vita in una virtual community (anche se non necessariamente su Second Life).

Stregate da questi numeri e dall’unanime coro di consensi che si levava sulla creatura dei Linden Labs molte aziende hanno quindi iniziato a costruire una propria presenza su Second Life, realizzando (anche se sarebbe meglio dire “sviluppando” mediante del software) palazzi, negozi e strutture varie per promuoversi, farsi pubblicità e perchè no, fare business. E stiamo parlando di aziende di primo piano come Microsoft, Toyota, Coca-Cola e Warner Bros, tanto per fare alcuni esempi.

L’interesse, per le tematiche affrontate in questo blog, inizia a nascere quando TMP Worldwide Adv&Comm annuncia la possibilità per le sue aziende clienti di fare attività di recruiting promuovendo il primo job fair virtuale su Second Life al quale partecipano aziende del calibro di HP, Microsoft, Verizion Communications e Sodexho.

L’evento, battezzato Network in World, svoltosi su Second Life dal 15 al 17 maggio 2007 può essere effettivamente considerato come il primo salone del lavoro virtuale e l’inizio dell’era del virtual recruiting. Grande successo, molta attenzione, soprattutto mediatica, tant’è che ne è stata organizzata una seconda edizione dal 21 al 23 agosto 2007 con la partecipazione questa volta di aziende come Accenture, General Electric, Emc2 e US Cellular.

I colloqui di lavoro si svolgono in chat privata per 15-30 minuti, poi se c’è davvero interesse il processo di selezione si estende inevitabilmente al mondo reale.

Secondo alcuni è un passo verso cui si orienterà la ricerca di nuovi talenti nel futuro perché l’uso di Second Life, annullando le distanze geografiche, può essere fonte di vantaggio competitivo perché da la possibilità di entrare in contatto con giovani talenti provenienti da tutto il globo.



Come funziona il recruiting su Second Life.

venerdì 12 ottobre 2007

Talent recruiting e università.

A testimonianza di quanto in questo periodo il tema dei talenti e degli sforzi che le aziende compiono per assicurarsi i migliori prima ancora che escano dalle università e si affaccino al mondo universitario in modo da costruire già durante il periodo degli studi una relazione privilegiata vi segnalo un interessante articolo di Luca Davi su Il Sole 24 Ore del 10 ottobre 2007 dal titolo "Ricerca dei talenti: il tirocinio comincia già dall'università. Stringono accordi con le università. Organizzano seminari e incontri. Attirano i giovani con promesse d'assunzione mantenute, ovviamente. In una parola, fanno marketing. Le aziende italiane cercano strade alternative per rafforzare l'employment brand, ovvero l'appeal che trasforma un semplice marchio nell'"azienda dei sogni" e che spinge i giovani neolaureati a candidarsi in un'impresa piuttosto che in un'altra. Per questa ragione sempre più spesso gli uffici recruiting chiedono alle università di anticipare i tempi degli stage formativi ai primi anni degli studi universitari. «Quando un giovane entra in azienda dopo la laurea, impiega almeno sei mesi per ambientarsi e capire se quella realtà è adatta a lui – spiega Giovanna Taiana, responsabile selezione del personale di Abb Italia –. Anziché dargli questa possibilità al termine degli studi ha più senso consentirgli di entrare in contatto con le dinamiche aziendali prima, già nei primi anni di studio, con stage orientativi ad hoc». Grazie agli accordi che sta formalizzando con diverse università italiane, dal Politecnico di Milano a quello di Torino fino alla Scuola normale di Pisa, Abb Italia vuole assistere i ragazzi nella fase della formazione e fare da "tutor" per gli studenti più meritevoli, con consigli non sbagliare il percorso. «L'obiettivo è indirizzare i giovani in gamba verso i corsi di specializzazione adatti a loro, cosicché l'ingresso ufficiale in azienda sia immediato. Con un risparmio di tempo e di energie per entrambi», conclude Taiana. Accusate di essere sempre troppo lontane tra loro, di non fare sinergia, di non conoscersi davvero a fondo, le imprese e le università dunque provano a reagire. E spingono anche sul piede dell'internazionalizzazione. «Stiamo formalizzando la possibilità di fare stage con gli uffici di placement dell'università di Parigi e Nantes, ma anche con atenei della Svezia e della Finlandia», dice Floriana Riberzani, responsabile della selezione del personale di Barilla. Una politica seguita anche da Enel. «Abbiamo stretto partnership con diversi atenei dell'Est Europa – spiega Maurizio Di Fonso, responsabile Enel university – e continueremo a farlo: abbiamo lanciato una campagna internazionale per reclutare giovani da tutta Europa per far crescere i giovani neolaureati». Non basta: Eni ha incontrato la Technical University di Kosice; l'Indesit la Tongji di Shangai; l'Italtel la Turku finlandese. Una necessità imposta dalla globalizzazione della conoscenza, che travalica i confini nazionali e che deve spingere le aziende italiane a cercare le migliori menti anche all'estero, se è lì che si formano. Ma che nasce anche dalla consapevolezza che le risorse umane formatesi negli atenei italiani spesso si disperdono e solo per caso incrociano autentiche opportunità. La voglia di offrire alle menti del futuro occasioni fuori i confini nazionali peraltro è carattere tipico delle università straniere. Che, forse a sorpresa, intendono mandare a "bottega" proprio in Italia i giovani studenti per vederli formare nelle nostre aziende. Dalla Tongji University di Shanghai all'Ecole Centrale di Pechino, dalla Brookes University di Oxford, dalla Technology Economics di Budapest alla Technical University di Kosice alla Western Ontario canadese, sono infatti molti gli atenei esteri che stanno prendendo contatti con gli uffici del personale dei marchi italiani per favorire occasioni di scambio e studio. Un'urgenza, quella dell'incontro tra università e imprese, che è stata intercettata dal Politecnico di Milano e dalla società di consulenza Emblema: insieme, le due realtà hanno lanciato Bip, acronimo della Borsa internazionale del placement, la cui prima edizione si è tenuta quest'anno a Cernobbio lo scorso settembre. L'evento ha visto sedere allo stesso tavolo i responsabili del placement di 59 atenei di tutto il mondo con i manager delle risorse umane di 89 aziende. L'obiettivo? Semplice quanto innovativo: far incrociare le offerte di placement delle università e la domanda di recruiting delle aziende per creare un network di portata mondiale."

giovedì 11 ottobre 2007

Downshifting: attenzione, la carriera può attendere.

Più tempo per se e per la propria vita privata e meno lavoro. Sembra essere questo un fenomeno in ascesa per migliaia di professionisti in tutto il mondo.
La necessità di rallentare il ritmo e scalare la marcia, di vivere con più tempo per se e con meno lavoro anche se questo significa nella maggior parte dei casi dover dare una limata allo stipendio sembra interessare anche l'Italia.


Il fenomeno del downshifting, ovvero scambiare una carriera economicamente soddisfacente ma stressante con uno stile di vita meno faticoso e meno retribuito ma più gratificante dal punto di vista personale, è un fenomeno che esiste già da tempo ma negli ultimi anni sta assumendo dimensioni sempre maggiori.

Il temine downshifting fu usato per la prima volta nel 1994 dal Trend Research Institute di New Nork per indicare il comportamento di persone che pur di avere maggior tempo a disposizione si dichiaravano pronte ad una riduzione, anche consistente, del loro stipendio. Si tratta di un esercito di professionisti e manager di ogni tipo che lavorano nel cuore pulsante delle metropoli e interessati ad invertire la rotta. Per queste persone il valor più importante in assoluto è il tempo.

Ed ecco quindi emergere un nuovo profilo di persone con le quali gli uomini dell’HR dovranno iniziare a confrontarsi.

Ma chi sono queste persone? Come può essere definito questo aspetto in Italia? Dall’analisi delle risposte ai 4.956 intervistati dell’a VI edizione dell’indagine Best100, sulle aziende preferite nelle quali lavorare, il numero delle persone che dichiara di cercare in azienda un compromesso che sia in grado di fargli raggiungere un buon equilibrio tra lavoro e vita privata è del 29,6 per cento in crescita rispetto al 18,8 per cento dell'anno precedente.

Sono soprattutto uomini, in possesso di laurea, già impiegati, di età maggiore ai 34 anni e residenti principalmente al nord, persone che attribuiscono sempre maggior valore alla qualità della vita e che vedono quindi sotto occhi diversi l’organizzazione del lavoro, consapevoli che la carriera ha perso il suo fascino, delusi dalla modernità e che hanno toccato con mano la grande illusione della tecnologia che sembrava dovesse liberarci dal lavoro e che invece di darci più tempo libero ce lo ha tolto.

Profilo dei downshifter italiani (fonte: Best100, edizione 2007).
Composizione socio-demografica delle persone che attribuiscono maggior importanza ad un equilibrio tra lavoro e vita privata:

Sesso (% downshifter, % campione Best100, Indice di Concentrazione)
Uomo: 64,9% - 60,1% - 108
Donna: 35,1% - 39,9% - 88

Età (% downshifter, % campione Best100, Indice di Concentrazione)
18 – 24 anni: 6,9% - 7,4% - 93
25 – 34 anni: 54,5% - 57,6% - 95
35 – 44 anni: 28,3% - 27,5% - 103
> 44 anni: 10,3% - 7,4% - 139

Titolo di studio (% downshifter, % campione Best100, Indice di Concentrazione)
Diploma: 19,7% - 22,4% - 88
Laurea: 80,3 - 77,6% - 104

Professione (% downshifter, % campione Best100, Indice di Concentrazione)
Studente e neolaureato: 25,8% - 35,1% - 74
Professional: 74,2% - 64,9% - 114

Residenza (% downshifter, % campione Best100, Indice di Concentrazione)
Nord: 59,2% - 54,7% - 108
Centro: 20,1% - 23,5% - 86
Sud e Isole 20,6% - 21,8% - 95

mercoledì 10 ottobre 2007

Il valore del talento.

Che il tema dei talenti sia di straordinaria attualità è indubbiamente vero. Basti pensare all'attenzione che non solo le aziende ma anche la stampa dedica a questo tema con sempre maggiore frequenza.

Che espressioni come "talento" o "guerra dei talenti" siano divenute di moda e ormai largamente abusate sia in ambito aziendale che mediatico tanto da rischiare di diventare semplici slogan privi di risvolti e applicazioni concrete è altrettanto vero.

Ma è anche vero che il tema, per l'importanza che riveste nelle organizzazioni e per l'impatto che può avere sul business aziendale, non può essere trascurato o sottostimato, perchè all'origine di ogni grande successo aziendale c'è sempre una storia legata al fattore umano.

Prendiamo il caso emblematico dell'iPod. In soli quattro anni la strategia di prodotto e di business legata al celebre apparecchio ha permesso alla Apple di aumentare le proprie quote di mercato raggiungendo l'80 per cento in un segmento ad alto profitto. L'azienda è così passata da un fatturato di 6 miliardi di dollari nel 2002 agli oltre 21 miliardi di dollari del 2006 con un incremento del 250 per cento (tant'è che molti analisti prevedono il sorpasso su Microsoft nel 2010 se l'azienda di Cuppertino dovesse mantenere nei prossimi anni questi livelli di crescita).

Quello di Apple rappresenta uno dei casi da manuale del valore e dell'efficacia che i collaboratori di talento possono portare ad un'azienda. Ed è al tempo stesso anche la dimostrazione dell'abilità dimostrata da un'organizzazione nel credere nel valore del talento.

Da questo punto di vista, nonostante si possa pensare che dietro allo sviluppo dell'iPod vi sia stato un team di persone impegnate a trovare assieme la nuova idea di business e a pianificare come e con quale prodotto costruire una strategia di successo, pochi sanno che la mente dietro tutto ciò è soltanto una: si chiama Tony Fadell ed è il papà dell'iPod.

Alla fine degli anni '90 Fadell iniziò a lavorare su una strategia di business che avrebbe rivoluzionato la musica digitale combinando insieme harware e software in un'unica piattaforma. La cosa più sorprendente è che la Apple non è stata la prima azienda alla quale Fadell si è rivolto per realizzare la propria idea. Ma è stata l'unica a non sbattergli la porta in faccia, garantendogli tutto il supporto possibile oltre al personale appoggio del CEO Steve jobs che per primo ha creduto nello straordinario talento creativo di Fadell.

Il caso della Apple è estremamente significativo di quello che i collaboratori di talento possono fare per un'azienda. Perchè è vero che non c'è innovazione se non si investe nel capitale umano vera risorsa strategica delle imprese nella nuova economia globalizzata. Nel caso specifico poi, Fadell ha anche dimostrato straordinarie doti di leadership motivando e guidando una squadra di 30 persone assegnate allo sviluppo del suo progetto completato nell'aco di soli sei mesi.

Ma quello della Apple non è il solo caso di come la competitività delle aziende si giochi ormai sul campo delle idee e nella capacità di differenziarsi in modo positivo rispetto ai competitor.

Altri esempi possono essere citati.

Come quello di Omid Kordestani, che ha aiutato Google, fino a quel momento un motore di ricerca straordinariamente efficace ma senza un significativo modello di business, a diventare quell'incredibile forza della pubblicità online che tutti conosciamo.

O anche quello di Dennis Carter, il celebre direttore marketing che ha inventato il programma Intel inside, dando all'azienda un vantaggio competitivo enorme rispetto ai conocorrenti a prescindere dalla velocità dei processori, catapultando il brand aziendale nell'olimpo dei nomi più conosciuti dell'informatica mondiale.

Per concludere, come non citare il mitico Steve Ballmer, vera mente propulsiva dello sviluppo commerciale di Microsoft, che ha ritenuto sempre prioritario il tema delle risorse umane, della motivazione e del fare squadra come elementi indispensabili per guidare un'azienda verso il successo.

Ma tutti i casi citati dimostrano che bisogna usicre dagli schemi stereotipati nei quali le organizzazioni troppo spesso si rifugiano, premiando il valore, la creatività, la voglia di fare unitamente alla capacità di motivare e fare gruppo. In poche parole premiando i talenti e costruendo un ambiente di lavoro nel quale l'iniziativa personale e la creatività siano incentivate e premiate.

Piccola nota di colore per chiudere. Guardate il filmato che segue. Secondo voi il CEO di Microsoft somiglia al vostro Amministratore Delegato?




martedì 9 ottobre 2007

La questione dei talenti tra mito e realtà.

Prendo spunto da un interessante contributo di Pier Luigi Celli pubblicato su Corriere della Sera del 5 ottobre 2007 a pagina 42 per un’ulteriore riflessione sulla questione dei talenti, centrale per chi si occupa di employer branding in quanto attività strettamente commisurata a guadagnare in favore della propria azienda l’attenzione dei collaboratori - attuali (in ottica di retention) o potenziali (in ottica di attraction) – di maggior valore.

L’articolo di Celli - "Quello del talento è un mito che va sfatato al più presto" - parte dall’osservazione di come la competizione sui talenti sia più un fenomeno di moda che interessa in questa fase le organizzazioni aziendali e che troppo spesso l’attenzione verso questo tema si riduca ad una pura e semplice esibizione mediatica di un tema di forte impatto emotivo. «Avere talento» o «essere un talento» secondo Celli dislocano il termine in campi referenziali significativamente diversi sicchè proprio la sostanziale ambiguità semantica rischia di trasformarsi in una trappola linguistica in grado di condurre ad un fallimento pratico prima ancora che del termine e della politica ad esso associata sia stato definito l’ambito di applicazione pratico.

“Di chi si parla, in impresa, quando si insiste su una politica dei talenti come strumento (e strategia) di individuazione e di promozione dei migliori: di chi lo è in astratto” continua Celli “quasi come forma consustanziale (e nativa) della qualità che si è fatta persona, quella persona, o di chi ha particolari caratteristiche in particolari campi e per particolari compiti? E, ancora, che rapporto finirà per esserci tra una popolazione selezionata per eccellere e la maggioranza destinata alla normalità, se non si chiarisce lungo quali assi si disloca il rapporto tra eccellenza e normalità, nella presunzione che si possa trovare un punto di equilibrio mobile (instabile?), una sorta di ottimo provvisorio, che forse massimizza i vantaggi organizzativi?”

Queste riflessioni nascono dall’osservazione che la parola talento è di per sé un termine che rischia di essere ambiguo e fuorviante nel momento in cui si porta dietro un riferimento come lo ha definito Celli “a dati cognitivi, a una preparazione professionale di tipo specialistico, a competenze in grado di essere misurate e quantificate «per differenza» rispetto a certi standard” domandandosi poi se il talento aziendalmente rilevante sia quello che esprime in astratto la migliore performance curriculare?

Vale la pena allora soffermarsi su cosa si intenda e debba intendersi per talento prima di percorrere una strada che rischia di portarci fuori tema.

Il talento, nella accezione che in questo ambito lo intendiamo, non ha nulla a che vedere con curriculum, votazioni o con l’eccellente conoscenza di una materia. L’aver ottenuto un punteggio di 100 (o con 110 per chi, come chi scrive, avendo qualche anno sulle spalle, si ritrova meglio a ragionare con il vecchio ordinamento) non necessariamente significa essere un talento, sia pure potenziale, così come non lo è una persona che esprime fortissime conoscenze informatiche ad esempio magari tali da essere considerato nel suo campo un guru.

Il talento ha più a che vedere con il saper essere della persona nei confronti degli altri, quindi con le sue capacità di relazione, di interazione e di comunicazione. Dal punto di vista di chi scrive i talenti sono giovani con un forte potenziale e con prestazioni superiori alla media, in grado di lavorare assumendosi responsabilità sempre maggiori, veloci nell’apprendere e in grado di trasferire valore alla struttura, ma anche manager con più anni di esperienza, professional di indiscussa competenza, che eccellono nell’operatività e con un alto grado di affidabilità. A condizione che oltre a garantire elevate prestazioni nel loro settore lavorativo, siano persone in grado di adattarsi al cambiamento, sempre in agguato nella moderna economia, che sappiano fare squadra, che trasmettono entusiasmo al gruppo all’interno del quale lavorano e siano in grado di motivare i propri collaboratori.

Lo riconosce lo stesso Celli allorquando afferma che le competenze richieste oggi sono “sempre più articolate e flessibili di quelle portate in dote dagli studi o da una monoesposizione funzionale , e dove quindi il «talento» andrebbe misurato anche su parametri «spuri», di tipo sociale, relazionale, emotivo e comportamentale”.

Tuttavia, proprio per queste complessità e per le variabili che intervengono non solo nell’esatta definizione di talento, ma anche nella pratica della selezione degli stessi o dei presunti tali e dell’efficacia dei programmi di sviluppo a loro dedicati, l’opinione di Celli sulla possibilità di percorrere questa strada all’interno delle aziende è alquanto negativa anche per le difficoltà che una politica dei talenti può introdurre nell’equilibrio gestionale dell’organizzazione con il rischio di creare delle entità estranee al tessuto aziendale e perciò da questo respinte.


Ma se la parabola dei “talenti” è in declino così come a suo tempo lo è stata quella dei “potenziali” questo destino negativo è da rintracciarsi nel modo in cui si è affrontato e si continua ad affrontare il tema o piuttosto come conclude Celli “nella vacuità del concetto in sé e nella scarsa utilità del suo impiego asettico nei contesti aziendali”?

lunedì 8 ottobre 2007

Employer branding: passa da formazione e carriera la sfida delle aziende per assicurarsi i migliori.

L’aumento della qualità dell’occupazione è la sfida alla quale saranno chiamate le aziende nel prossimo futuro per garantire il raggiungimento degli obiettivi aziendali in termini di sviluppo, crescita e competitività in un mercato, non solo quello delle merci e dei servizi ma anche delle risorse umane, sempre più globalizzato e interconnesso.

Da questo punto di vista il riconoscimento della realtà aziendale come employer di riferimento diventa di fondamentale importanza per vincere quella sfida dei talenti che sempre di più caratterizza e caratterizzerà il mercato del lavoro della moderna economia basata sulla conoscenza.

In un contesto come quello attuale caratterizzato da un lato dalla necessità assoluta di continuare ad innovare per eccellere in un mercato che non conosce confini e diventa, proprio per questo, sempre più competitivo, e dalla rapida obsolescenza delle conoscenze dall’altro, il vero differenziale di successo è rappresentato dalla conoscenza e dai soggetti che la generano: i collaboratori dell’azienda.

Ma quali sono i fattori, gli elementi e le politiche aziendali che sono in grado di far eccellere un'azienda rispetto alle alte nelle ambizioni dei talenti. Ovvero, quali sono i fattori motivanti per studenti, neolaureati e professional? E, sopratutto, le politiche sulle quali puntano le aziende per attrarre e trattenere i talenti vengono incontro a queste esigenze?

Secondo una recente indagine di Gidp, associazione direttori risorse umane, il 38,9 per cento delle aziende punta sulla formazione, il 28,5 per cento sulle possibilità di carriera e il 23 per cento sull’opportunità di lavorare in contesti internazionali.


Il 16 per cento dei responsabili del personale punta invece sulla forza del brand e della reputazione aziendale e il 10,8 per cento sulla sicurezza del posto di lavoro. All’ultimo posto lo stipendio perchè, sempre secondo quanto riportato dall'indagine Gidp, solo l’1,1 per cento dei responsabili delle risorse umane sono stati autorizzati dal top management aziendale a puntare sul pacchetto retributivo che invece rappresenta per chi è alla ricerca di lavoro o di nuove opportunità professionali il secondo elemento di maggiore attrazione nella scelta dell'azienda nella quale lavorare dopo la formazione e la possibilità di crescita professionale che mette d’accordo il 76,8 per cento degli intervistati.

Infatti, secondo quanto emerge dalle 4.956 interviste effettuate a studenti, neolaureati e professional in occasione delle rilevazioni per l’edizione 2007 della Best 100, le aziende preferite dagli italiani, una buona retribuzione e un solido pacchetto di benefit attirano il 61,5 per cento degli intervistati, prima del clima aziendale che con il 49,5 per cento si conferma come terzo elemento di maggior interesse nella valutazione di un’azienda come di un buon posto nel quale lavorare.

L’opportunità di lavorare in contesti internazionali che, come abbiamo visto, risulta essere uno tra gli elemento di maggiore attualità sul quale insistono le politiche di attraction degli uomini delle risorse umane, è al quarto posto nella scala delle preferenze con il 31,5 per cento, seguito dal valore del brand e della reputazione aziendale al quale attribuiscono importanza il 24,6 per cento degli intervistati.

All’ultimo posto nella graduatoria di studenti, neolaureati e professional la ricerca della sicurezza del posto di lavoro, 20,4 per cento, forse perché esiste ormai la consapevolezza delle profonde trasformazioni in atto nel mondo del lavoro che sempre più chiede flessibilità, circostanza che in un certo modo viene confermata anche dai contratti che, sempre secondo l’indagine della Gidp, i responsabili del personale offrono ai pur ambiti talenti.


Infatti, per il 37,5 per cento dei casi vengono offerti stage o tirocini, per il 21,3 per cento contratti a tempo determinato e per il 12,2 per cento contratti di inserimento. Il contratto a tempo indeterminato ricorre sempre meno spesso, utilizzato solo dal 9,7 per cento dei responsabili hr intervistati e in netto calo rispetto al 16 per cento registrato nell’analoga indagine dello scorso anno, al 20 per cento del 2005 e al 32 per cento del 2004.

Gli elementi usati dalle aziende per attirare i talenti:
1. Formazione e crescita professionale: 38,9%;
2. Possibilità di carriera: 28,5%;
3. Possibilità di lavorare in contesti internazionali: 23,0%;
4. Brand e reputazione aziendale: 16,0%;
5. Sicurezza del posto di lavoro: 10,8%;
6. Stipendio e benefit: 1,1%.

Gli elementi valutati con maggiore interesse da diplomati e laureati:
1. Formazione e crescita professionale;
2. Stipendio e benefit: 61,3%;
3. Clima aziendale: 49,5%;
4. Opportunità di lavorare in contesti internazionali: 31,7%;
5. Brand e reputazione aziendale: 24,6%;
6. Sicurezza del posto di lavoro: 20,4%.