mercoledì 30 aprile 2008

Employer branding e pubblicità.

L'employer branding è senza dubbio uno dei temi chiave per molte aziende negli ultimi tempi.

Sfortunatamente, quello che molte aziende mettono in pratica nel nome dell'employer branding ha, spesso, poco a che fare con il tema in oggetto.

Uno dei temi chiave a questo proposito è la confusione che spesso si fa tra employer branding e pubblicità e l'errata convinzione che basti investire in pubblicità per migliorare al tempo stesso la forza del proprio brand anche nel mercato del lavoro.


Sento spesso affermazioni come "non abbiamo un programma di employer branding in azienda, ma tanto investiamo molto in pubblicità, il nostro brand è ben visibile", oppure "non ci possiamo permettere grandi investimenti in pubblicità e quindi per il momento non ci interessa l'employer branding".

Niente di più sbagliato. Non c'è alcuna relazione tra pubblicità tradizionale (quella cioè che l'azienda fa per promuovere i propri prodotti o servizi) ed employer branding.

Così come non occuparsi del proprio employer branding non significa eliminare il problema, perchè l'employer branding di qualsiasi azienda esiste nella mente e nel percepito dei collaboratori attuali e potenziali (e più in generale nel mercato del lavoro) a prescindere dal fatto che il management se ne interessi o meno.

Proviamo ad inquadrare meglio il tema partendo dalla lista dei primi 10 investitori in pubblicità.

Big Spender - anno 2007 (fonte: Nielsen):
1. Ferrero
2. Unilever
3. Wind
4. Vodafone
5. Procter&Gamble
6. Tim/Telecom Italia
7. Barilla
8. Fiat
9. Volskwagen
10. L'Orèal


La spesa complessiva delle aziende citate è stata pari a 1.250 milioni di euro, circa il 14 per cento del totale degli investimenti in pubblicità del 2007 che sono stati pari a 8.783 milioni di euro.

Ora, se confrontiamo il posizionamento dei primi 10 big spender in pubblicità con i risultati che queste aziende hanno ottenuto in termini di gradimento del proprio employer branding, usando come parametro di riferimento l'edizione dello stesso anno, il 2007, della classifica di PeopleValue "Best100, le aziende preferite dagli italiani", scopriamo che solo 5 di queste aziende risultano anche nell'elenco delle prime 10 aziende nelle quali gli italiani vorrebbero lavorare. Tra queste poi troviamo Ferrero, il maggiore big spender del 2007 che nella classifica delle aziende maggiormente ambite nelle quali lavorare è all'8 posto, Barilla che invece al contrario è al 2° posto delle aziende più ambite nelle quali lavorare ma al 7° posto nella classifica dei big spender e con grandi investitori come Volkswagen e ancora di più Wind (3° posto assoluto per spesa pubblicitaria nel 2007) che non rientrano nemmeno nell'elenco delle prime 100 aziende preferite nelle quali lavorare nelle preferenze espresse da studenti, neolaureati e professional.

E' evidente che la pubblicità che un'azienda fa per promuovere i propri prodotti e i propri servizi, forse con alcune rare eccezioni nelle quali il concept della comunicazione coinvolge più da vicino come testimonial i dipendenti stessi dell'azienda, non sortisce di norma alcun effetto per quanto riguarda l'appetibilità dell'azienda nel mercato del lavoro. E non potrebbe essere altrimenti, perchè stiamo parlando di attività completamente diverse che rispondono ad esigenze completamente diverse e, sopratutto, che hanno, come target obiettivo, pubblici completamente diversi. Vale peraltro la pena di osservare che, nel caso di Procter&Gamble, al 5° posto nella classifica delle aziende maggiormente ambite nelle quali lavorare, il tema della spesa pubblicitaria conta poco, atteso che, per policy aziendale le campagne pubblicitarie dell'azienda si concentrano esclusivamente sui singoli marchi dei prodotti (Dash, Swish, Infasil, ecc.) senza che mai venga citato il brand aziendale.

In realtà, le campagne di employer branding dovrebbero concentrarsi di più su specifiche attività di promozione attraverso le PR piuttosto che sulla pubblicità tradizionale. Non che la pubblicità non serva, anzi, può essere d'aiuto sopratutto in campagne tattiche di recruitment marketing, ma la strategia alla base dell'employer branding deve essere diversa.

La premessa alla base della costruzione di un employer value proposition aziendale che sia in grado di attrarre i talenti è che il brand aziendale deve essere costruito in modo virale dalle persone che diventano in questo modo testimonial dell'azienda. In questo caso virale vuole dire che le best practice sul people management dell'azienda hanno bisogno di essere testimoniate e a loro volta raccontate agli altri per essere realmente credibili. E la testimonianza diretta, il word of mouth, come lo definirebbero in estrema sintesi nei paesi anglosassoni, è la chiave vincente. Provate per un attimo a pensare ad un risorante, per quanto originale possa sembrare il paragone. E' in grado di attirare più clienti una pagina di pubblicità o un articolo con una buona recensione sulla cucina su una rivista di prestigio? O ancora meglio, il consiglio di un amico che in quel ristorante è già andato a mangiare? E' la stessa cosa per l'employer branding. Attenzione, non sto dicendo che la pubblicità non serve a nulla tout court. E' importante anche quella, sebbene per l'argomento del quale stiamo trattando, si dovrebbe far riferimento ad una pubblicità specifica, il cosidetto recruitment advertising. Ma anche in questo caso, il recruitment advertising è solo una piccola parte di una strategia più ampia volta a migliorare e rafforzare la percezione del brand aziendale come employer di riferimento.

Vi sono poi un'inifinita serie di altre considerazioni che dovrebbero sgombrare per sempre il campo dall'equivoco sul rapporto tra pubblicità ed employer branding. La prima di queste è la considerazione che molti top performer non prestano molta attenzione alla pubblicità, ma concentrano maggiormente il proprio interesse sulle best practice. Così come presteranno più attenzione a case study presentate in occasioni di conferenze o sulla base di scambi di esperienze personali.

Un forte employer brand si costruisce attraverso coinvolgenti storie personali raccontate da persona a persona perchè non c'è nulla che abbia più chance di essere ascoltata, creduta e a sua volta raccontata che una storia di successo professionale che dimostra nei fatti come si lavora in una data azienda. Di occasioni possono essercene molte, conferenze, articoli, presentazioni aziendali alle Università e molte altre possono essere create. Non a caso molte aziende mi riferiscono che l'apprezzamento maggiore assieme ad una maggiore attenzione lo ottengono quando, nel corso di presentazioni aziendali, organizzano delle testimonianze non solo di manager ma anche di collaboratori da poco in azienda che raccontano la propria employer experience. Proprio per questo non occorre sottovalutare il grande assett interno a disposizione di tutte le aziende: i propri collaboratori. Sono dei fantastici testimonial dell'employer value proposition aziendale. Ma è necessario coinvolgerli, anche con dei programmi di employee referral: i collaboratori come ambasciatori dell'azienda.

Insomma, quello che proprio non funziona è dichiarare semplicemente "siamo un bel posto nel quale lavorare". Gli slogan non servono, perchè i top performer non sono molto interessati agli slogan. Quello che ci vuole per convincerli sono invece informazioni dettagliate che siano in grado di far percepire in modo distinto e unico in cosa si differenziano le pratiche di management e di gestione delle risorse umane in quell'azienda rispetto alle altre.

Tutto questo per sottolineare quanto sia importante ogni tanto soffermarsi a riflettere su cosa sia e cosa non sia l'employer branding (e abbiamo visto che fare pubblicità non è employer branding). Solo in questo modo si riesce a comprendere quali siano gli elementi e le attività più indicate per sviluppare un efficace programma di employer branding che sia in grado di attrarre i top performer, migliorare il clima interno e impattare in modo positivo sui risultati aziendali creando valore per gli azionisti, avendo chiaro in mente che ogni azienda è un caso a se, che va attentamente analizzato e valutato, e che non esistono ricette comuni che siano in grado di adeguarsi in modo standardizzato alle diverse specificità di ogni azienda.

lunedì 28 aprile 2008

Corporate identity ed employer branding.

Il tema del rapporto tra corporate identity ed employer branding è un argomento relativamente ancora poco sviluppato che genera spesso molta confusione.

In particolare, non se ne colgono con distinzione i confini, le finalità e gli ambiti di applicazione, tant'è che spesso non si comprende se si possa rafforzare l'employer value proposition aziendale lavorando solo sulla corporate identity o se si possa costruire e rafforzare l'employer brand aziendale in assenza di chiare linee guida sul tema della corporate identity o ancora in che modo debba essere gestito il brand aziendale nella comunicazione corporate o in quella destinata agli employee.

Procediamo con ordine e inquadrando anzitutto il concetto della corporate identity. La corporate identity è il modo in cui un’impresa si presenta, attraverso i prodotti, i servizi, la comunicazione, i comportamenti, nel tentativo di proiettare un’immagine unica, distintiva e attraente agli stakeholder.

Gli stakeholder sono i soggetti portatori di interesse nei confronti dell’azienda. E di questo insieme fanno parte gli azionisti, i clienti, i fornitori, i finanziatori come le banche, i collaboratori, ma anche i gruppi di interesse esterni, come i residenti nelle aree coinvolte dall’attività dell’azienda, si pensi alle aziende con siti industriali sul territorio, o i gruppi di interesse e le amministazioni locali.

Il tema è molto complesso perchè l’identità aziendale è un tema centrale. Le aziende che hanno una migliore reputazione godono di una valutazione superiore da parte del mercato rispetto ai concorrenti. In ogni caso, al centro della corporate identity c’è il brand aziendale e il modo in cui questo viene comunicato, percepito, visto, vissuto dagli stakeholder e i valori distintivi che questo esprime e comunica. In altre parole, la corporate identity è "l'anima dell'azienda" (definizione di Pier Luigi Celli, in "Anche le aziende hanno un'anima", Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2007, n. 195).

Ma se la corporate identity è in definitiva quello che sei e quello che comunichi al pubblico degli stakeholder, l’employer branding invece è quello che l’azienda è, esprime e comunica solo verso i collaboratori attuali e potenziali dell’azienda, che è cosa ben diversa.



Anche in questo caso le aziende che hanno una migliore reputazione nel mercato del lavoro, come employer di riferimento godono di una considerazione maggiore rispetto ai concorrenti e sono quelle che sul mercato del lavoro vincono la guerra dei talenti.

Anche in questo caso la comunicazione è importante ma è solo uno dei fattori da mettere in campo per diventare employer of choice. Gli elementi da considerare per promuovere l'employer branding sono i valori dell’azienda, lo stile di leadership, il sistema premiante, l’attenzione alla formazione e alla crescita professionale, il coinvolgimento dei propri collaboratori nella vita dell’azienda, l’attenzione ai bisogni personali e familiari, la volontà e la capacità di tutti i collaboratori di esprimere orgoglio, senso di appartenenza e spirito di squadra.

Riassumendo possiamo quindi dire che corporate identity ed employer branding sono due facce ben distinte della stessa medaglia: il brand aziendale. Che deve però essere comunicato in modo distintivo e diverso per ognuno dei due temi, sebbene in coerenza con i valori che l'azienda, nell'uno e nell'altro caso, vuole esprimere ai diversi pubblici di riferimento.

E, sebbene i temi della corporate identity e dell’employer branding possano, in linea di principio, essere affidati rispettivamente alla comunicazione e alle risorse umane, l’input principale per entrambi deve discendere sempre dal vertice aziendale. Perché il potenziamento dell’identità aziendale sia essa corporate o rivolta agli employee attuali o potenziali riguarda tutta l’azienda, parte dal vertice, coinvolge in modo attivo le prime linee aziendali, i songoli dirigenti, per arrivare, per essere veramente efficace, a tutti i collaboratori.

Laddove questo non accade, tuti gli sforzi e le energie dedicate al perseguimento dell'obiettivo di migliorare la percezione del brand aziendale presso i diversi e specifici pubblici di riferimento saranno stati inutili. Ed è per questo che spesso, nonostante budget stanziati ed energie spese, alcune iniziative in questo campo non conseguono il risultato atteso.

giovedì 24 aprile 2008

Talenti in fuga. Innovazione e ricerca: i ritardi dell'Italia.

Il tema della produttività e quello collegato della ricerca e dell’innnovazione è stato pressoché ignorato nell’ultima campagna elettorale.

Eppure, come riportato da Riccardo Viale su Il Sole 24 Ore del 22 aprile 2008, “Ricerca, per l’impresa è un partner debole”, è parecchio tempo che varie agenzie internazionali in primo luogo l’Ocse denunciano la situazione sempre più critica del nostro Paese, segnalando il progressivo declino della produttività multifattoriale, quella che comprende innovazione tecnologica e organizzativa.

L’industria italiana, aggiunge il prof. Carlo Mario Guerci in un articolo su Economy del 23 aprile 2008, "O innoviamo o scompariamo", in passato efficace nell’adottare le migliori tecnologie tipiche dei settori maturi, produttiva nel comporre singole innovazioni in sistemi innovativi si è poi arrestata di fronte a quelle innovazioni che richiedono elevata intensità di risorse umane specialistiche – farmaceutica, chimica ed elettronica – e ha perso del tutto l’appuntamento con la ricerca e l’innovazione che presidiavano le più moderne tecnologie digitali.

Insieme allo scarso sviluppo della capacità tecnologica si è attribuita poca attenzione, continua Guerci, alla capacità organizzativa, elemento fondamentale perché le risorse informatiche richiedono di essere accortamente combinate con rifacimenti profondi dei processi produttivi e porta a dimostrazione l’esempio delle nostre imprese minori che generalmente non sanno come sfruttare le potenzialità di innovazioni che sono già disponibili.

Aver perso il contatto con la rivoluzione digitale è stato il maggior fattore di distacco dal progresso tecnologico moderno e ha inciso sia sulla creazione di nuove imprese del settore sia sugli sviluppi applicativi possibili, sia sulle potenzialità di crescita dell’intera industria e dei servizi sia sulla qualità dell’occupazione.

E calza a pennello per rimarcare questo ritardo l’esempio del Brasile riportato da Luca De Biase in un articolo, “Ritardi tecnologici. Gli italiani e internet ancora poco (e male)”, pubblicato oggi, 24 aprile 2008, su Il Sole 24 Ore, dove una fattura si manda per posta elettronica all’ufficio delle imposte che a sua volta la gira immediatamente al cliente con il risultato di avere operazioni semplici, trasparenti, tempi di pagamenti e riscossione fiscale sotto controllo.

Nella passata campagna elettorale non abbiamo sentito nulla su questi argomenti, nessuna osservazione sulla necessità di un intervento massiccio di digitalizzazione della pubblica amministrazione e della necessità di investire in ricerca scientifica e formazione per ridare slancio al Paese formando al tempo stesso risorse altamente qualificate alle quali le nostre imprese possano attingere.

E dire che le competenze, già oggi, non mancano nel nostro Paese. Basti pensare che se non ci fossero stati i ricercatori italiani l’ Università di Vrije di Amsterdam avrebbe ottenuto ben pochi fondi dall' ERC il Consiglio Europeo delle ricerche.

Su 5 progetti di ricerca che hanno permesso all’università olandese di ottenere i primi fondi messi a disposizione dall'ERC ben tre sono frutto di idee di ricercatori italiani. Davide Iannuzzi (fisico), Arianna Berti (filosofa) e Sabrina Corbellino (storica), sono tre dei 35 “cervelli” che compongono la pattuglia italiana dei 300 talenti vincitori del bando europeo.

L’ERC è il più importante organismo europeo a sostegno della ricerca, che stanzia fondi destinati a giovani ricercatori in base esclusivamente al merito e mediante un rigoroso bando di concorso. Gli stanziamenti dell'ERC per l’anno in corso sono di 300 milioni di euro ma l’obiettivo è di arrivare nei prossimi anni ad erogare 7 miliardi e mezzo di euro per sostenere la ricerca europea e colmare il gap che ci separa dai cugini americani. 9.000 domande presentate di cui 1.600 soltanto da ricercatori italiani, il numero più alto in assoluto, seguiti dalle 1.000 della Germania, dalle 800 della Gran Bretagna e dalle 600 della Francia. Sulla base della graduatoria invece siamo secondi con 35 progetti approvati dopo la Germania, che ne ha avuti approvati 40, e prima dei francesi e degli inglesi rispettivamente con 32 e 30 progetti approvati.

Un successo per i giovani talenti della ricerca italiana offuscato però da un dato sorprendente e molto preoccupante. Su 35 vincitori, ben 13, più di un terzo, hanno deciso di spendere i fondi ottenuti per fare ricerca all’estero. Il paradosso è evidente. L’Italia perde fondi e giovani talenti nella ricerca e nell’innovazione. I motivi che hanno spinto i nostri ricercatori ad andare all’estero sono tipicamente tre: più fondi per la ricerca (l’Italia investe solamente l’1,1% del proprio Pil contro il 2,67 % degli Stati Uniti e il 2,52% della Germania), maggiore numero di strutture d’eccellenza e una cultura improntata al merito.

Al di la del dramma rappresentato da queste motivazioni elencate da alcuni ricercatori intervistati in un articolo di Valentina Vescovo pubblicato il 22 aprile 2008 su Il Messaggero, “Ricerca, prendi i soldi e scappa: così l’Italia perde fondi e cervelli”, che esprimono tutta la frustrazione di una categoria di persone sottoposte al dramma dei baroni universitari e delle loro regole nepotistiche, il grande motivo di preoccupazione è poi rappresentato dal fatto che l’Italia, a differenza di altri paesi europei, non solo non è in grado di trattenere i migliori talenti nella ricerca, ma non è nemmeno in grado di attirarne dall’estero.

Significativo a questo proposito la situazione del polo scientifico di Trieste che esprime eccellenze internazionalmente riconosciute come la Sissa, Scuola Superiore Studi Avanzati o l’ICTP International Center of Theorical Physics o ancora l’area dello Science Park cono oltre 75 istituti di ricerca che si vede sbarrare le porte a ricercatori e scienziati stranieri che vogliono svolgere un programma scientifico in Italia per una questione meramente burocratica e tipicamente italiana che vale la pena di citare per capire come siamo maestri nel farci del male da soli.

Il D.lgs. 17/2008 disciplina i permessi di lavoro per gli scienziati non europei stabilisce che gli scienziati possono venire in italia quando vogliono purchè, ecco che inevitabilmente ci complichiamo la vita, l’istituto dove andranno a lavorare sia iscritto in una lista predisposta dal ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica. Lista che, ad oggi, come testimonia un’inchiesta pubblicata su L’Espresso del 24 aprile 2008, “Cervelli in lista d’attesa” di Susanna Jacona Salaria, il ministero non ha ancora emanato. Risultato: nessun istituto di ricerca italiano risulta ancora accreditato e tantomeno è stata resa disponibile la modulistica necessaria all’accreditamento, istuti di ricerca in panne e questure, che dovrebbero rilasciare i permessi, nel caos. In molti casi, come riporta l’articolo si tratta di progetti di ricerca già approvati e ogni ritardo è grave perché essendo i finanziamenti Ue vincolati a tempi e risultati non ammettono ritardi. Il rischio, grave e reale, è di perdere i fondi a vantaggio di altri Paesi e di dirottare i migliori ricercatori verso altri lidi.

La ricerca italiana quindi già afflitta da una cronica debolezza di strutture e investimenti e da logiche poco meritocratiche di selezione, sembra essere un partner sempre meno credibile per venire in aiuto al sistema Paese e alla riscossa dell’impresa manifatturiera nazionale, perché senza un’iniezione di risorse finanziarie e di capitale umano giovane e preparato si esaurisce la dotazione di conoscenze dell’azienda manifatturiera italiana e con essa si perde il vantaggio competitivo delle imprese italiane sui mercati internazionali.

Quanti anni di declino dovremmo subire perché un governo affronti seriamente questi problemi?

mercoledì 23 aprile 2008

Quanto pesa il clima interno: il caso Intesa San Paolo.

Notti insonni per i dirigenti di Intesa San Paolo, la più grande banca italiana. Sembra infatti che Francesco Micheli, direttore generale e responsabile delle risorse umane del gruppo sia alle prese con un problema molto delicato: esuberi volontari in lista d'attesa. Ovvero, le domande di uscita anticipata dal gruppo sono di gran lunga superiori alle aspettative. Il piano industriale 2007-2009 si proponeva infatti un obiettivo di ridurre gli organici di 2.300 unità a seguito della fusione e riorganizazione del gruppo San Paolo e di Banca Intesa.
La sopresa, peraltro già annunciata, arriva già alla fine di febbraio 2008. L'esodo volontario, dipendenti cioè che chiedono spontaneamente di lasciare l'azienda, ha ricevuto adesioni da circa 4.300 dipendenti, che si sono aggiunti ai 4.200 prepensionamenti già approvati ad agosto 2007.
Un totale quindi di 8.500 domande di uscita da parte dei dipendenti del gruppo, 2.000 mila in più del previsto, più del 30 per cento.
Che in Intesa San Paolo il clima interno non sia dei migliori?

martedì 22 aprile 2008

Engagement e produttività:l'importanza della flessibilità organizzativa.

Il persistente dibattito sulla precarietà del lavoro ci porta a rappresentare la flessibilità in un'unica direzione, quella delle tipologie contrattuali. Eppure la vera flessibilità di cui le imprese hanno bisogno non è tanto, e solo, quella contrattuale. Forse ancora più importante è la flessibilità organizzativa che pure è compressa da una cultura giuridica formalistica che poco e male valorizza la delicata funzione della direzione del personale.

Basta una lettura superficiale dei principali contratti per avere una inequivocabile conferma di come alcuni istituti centrali rispetto ai temi della innovazione organizzativa e della produttività (orari di lavoro, regime degli appalti e processi di esternalizzazione, mansioni e classificazione dei lavoratori, profili formativi, ecc.) siano solo marginalmente oggetto di intese collettive volte a governare il cambiamento in atto nei modi di lavorare e produrre.

Eclatante è il caso dell'inquadramento dei lavoratori fermo a un modello d'impresa, quella fordista-taylorista, che non c'è più, o che comunque si è profondamente modificato.La contrattazione collettiva prevede un corposo elenco di mansioni alle quali vengono attribuiti gli inquadramenti del personale con i minimi. I livelli sono organizzati secondo una progressione di carriera verticale, che valorizza l'acquisizione della maggiore specializzazione nella singola mansione. Un sistema che è stato positivo, perché ha determinato una certa omogeneità di trattamento economico, nonché la sicurezza di un minimo. In un contesto produttivo rigido questo meccanismo è risultato utile e solo in parte ha bilanciato un non sempre positivo appiattimento dei salari.

Tuttavia oggi i modelli produttivi sono sottoposti a mutevoli pressioni competitive. L'organizzazione delle imprese tende ad essere "piatta e snella", con minori possibilità di crescita verticale, ma con notevoli opportunità di espansione orizzontale delle competenze. Tutto ciò induce l'uso di più generali strumenti cognitivi quali la flessibilità mentale a imparare e svolgere compiti nuovi, la predisposizione a interagire con i colleghi per raggiungere un certo risultato comune, la capacità di modificare e integrare la propria prestazione all'interno di un programma di lavoro più ampio.

Il collaboratore dell'azienda moderno, operaio o impiegato che sia poco importa, è chiamato non solo ad attingere staticamente alle conoscenze specifiche della mansione, ma ad offrire anche un certo grado di flessibilità operativa sia nell'organizzazione dei compiti che nell'utilizzo delle tecnologie, anche se che non sempre sono direttamente connesse alla mansione naturale. Il datore di lavoro deve poter incentivare e valorizzare tali qualità per dotarsi di una organizzazione del lavoro contrassegnata da dinamismo e competenze trasversali.

La nuova organizzazione del lavoro mal si concilia con l'attuale sistema di inquadramento e qualifica professionale, nato in un contesto economico e sociale oramai consegnato alla storia. Il modello retributivo unico e rigido legato alla singola mansione andrebbe pertanto scomposto in più elementi flessibili che permettano di compensare ciò che il lavoratore fa, ma anche e soprattutto di valorizzare ciò che il lavoratore "sa fare" (pay for competence).

Vale a dire quelle competenze ulteriori che costituiscono il corollario della mansione principale, ma che rappresentano per l'impresa i tratti della maggiore professionalità e distinzione dalla concorrenza. In questa prospettiva si potrebbe ipotizzare una prima componente fissa della retribuzione, uguale per tutti, indicizzata. Una sorta di “salario sociale”, il cui importo però non corrisponderà agli attuali minimi dei contratti collettivi, ma sarà più simile all'importo della pensione sociale.

A ciò dovrebbe seguire un secondo elemento chiamato "salario o stipendio di ruolo", ancorato al ruolo professionale ricoperto, senza tuttavia coincidere con le mansioni elencate negli attuali contratti collettivi, e che potrebbe invece fare riferimento ai livelli di professionalità ritenuti validi nel contesto aziendale (dal ruolo "generico", a quello puramente "tecnico" a quello "gestionale").

Altri elementi potrebbero eventualmente essere poi un "superminimo professionale" e un "superminimo distintivo", che rappresentano il compenso per le maggiori qualità dimostrate nel corso dell'attività lavorativa. Ad esempio la capacità di svolgere più ruoli o mansioni. Oppure il possesso di competenze speciali ad alto valore aggiunto.

Questi due ultimi elementi non saranno obbligatori, ma negoziabili in funzione di indicatori e parametri di produttività che è il tema vero del nostro sistema di relazioni industriali.Un appropriato sistema fiscale e contributivo, del tipo di quello delineato nel recente protocollo sul welfare per la contrattazione di secondo livello, dovrebbe incentivare il lavoratore a puntare a tali compensi, portandolo a migliorare il proprio contributo, e allo stesso tempo rendere conveniente alla azienda erogare tali riconoscimenti.

giovedì 3 aprile 2008

Engagement e Motivazione: effetto boomerang per Telecom Italia.



Il video che vi propongo ha come protagonista Luca Luciani, attualmente Head of Domestic Mobile Services di Telecom Italia, ripreso in una convention aziendale nel tentativo di motivare i collaboratori del maggiore gruppo di telecomunicazioni italiano.

E' un video esilarante, che sta impazzando nella Rete per gli strafalcioni storici - citando Napoleone come esempio per esortare i dipendenti di un gruppo alle prese con un difficile momento forse più aziendale che di mercato confonde la
battaglia di Austerlitz, con Waterloo dove Napoleone ebbe invece la sua più grande sconfitta – per il gratuito utilizzo di parolacce e per l’originale uso della grammatica italiana.

Quello che in questa sede ci preme sottolineare è invece come la leggerezza di un manager, che pure sembra avere un profilo professionale interessante, stando al suo curriculum, possa diventare un terribile boomerang (cerco motivazione-ottengo demotivazione, si aspettano competenza dai manager-ricevono incompetenza, ecc.) ma anche il danno che un fatto del genere, associato all'effetto moltiplicatore garantito dalla Rete, può provocare all’employer branding di un’azienda come Telecom Italia.

La viralità della distribuzione del video presente su YouTube, le decine di blog che hanno ripreso la sua sfortunata performance e le migliaia di commenti negativi da parte dei lettori del web, sono un danno di immagine di incalcolabile valore per un’azienda come Telecom Italia e gettano sull’employer branding dell’azienda stessa una forte zona d’ombra in un momento aziendale di per se già difficile. E i competitor ringraziano. Sono curioso di vedere se e come le relazioni esterne e le risorse umane interverranno per gestire quella che a tutti gli effetti può essere definita una situazione di emergenza per employer branding aziendale.

Di seguito la trascrizione del suo discorso:

Questo è il messaggio a cui tengo molto.Perché ho la faccia incazzata ?Ho la faccia incazzata perché respiro sfiducia , respiro aria da aspettativa , respiro quelle facce da senso critico , come quando uno vede una partita di pallone non ce la fa e tutti sono professori ; perché , perché la gente legge i giornali , vede il titolo , si rimbalza si crea dei grandi film che sono tutte cazzate !Oggi non parlo di Alessandro , parlo di Napoleone. Napoleone a Waterloo , una pianura in Belgio , fece il suo capolavoro , tutti lo davano per fatto , cotto , per la supremazia degli avversari , c’aveva cinque grandissime nazioni contro , delle forze in campo . Però strategia , chiarezza delle idee , determinazione , forza , Napoleone fece il suo capolavoro a Waterloo.Allora , le facce scettiche , le facce di … non servono a un cazzo . Questa è una delle aziende più belle che esiste al mondo. E allora , forte di questa convinzione , noi dobbiamo dimostrare che questo è un fatto. Piangersi addosso non serve assolutamente a niente.E come nel momento duro , dagli spalti la gente ti dice ” ehhh la squadra non gira , non corrono ” , bene , correte di più , stringete i denti , prova di carattere. E allora dagli spalti vi applaudiranno perché voi andrete e segnerete. Come fece Napoleone a Waterloo.”