giovedì 28 maggio 2009

Per le risorse umane in azienda ci vuole un salto di qualità.

E' un intervento interessante quello di Ferruccio Cicogna, pubblicato sul quotidiano MF del 26 giuugno 2009, sulla necessità che le risorse umane cambino approccio nei confronti dell'azienda e dei collaboratori attuali e potenziali e si trasformino da burocrati amministrativi in partner di business dell'azienda stessa.

Nel suo intervento, Ferruccio Cicogna, che è direttore della divisione imprese presso l'Associazione per gli studi aziendali e manageriali dell'Università Cattolica, evidenzia come la crisi economica abbia portato come conseguena un ripensamento dell'azienda e del suo sistema organizzativo con delle ricadute all'interno sia a livello di singole funzioni sia in ottica di obiettivi e risultati attesi e quindi di approccio manageriale.
Una tra le funzioni che nei prossimi anni sarà oggetto di un radicale cambiamento, secondo Cicogna, è proprio la funzione Risorse Umane che sarà chiamata a svolgere un ruolo non più semplicemente esecutivo, ma strategico e di supporto all'impresa. L'HR dovrà insomma trasformarsi in un partner delle altre funzioni aziendali imparando ad allineare le proprie attività agli obiettivi di business dell'azienda.
Questa osservazione nasce dalla constatatzione che sempre più le practice richieste dal top management aziendale alla funzione HR siano disallineate. In sintesi sembrerebbe che le performance attuali di chi opera nel settore delle Risorse Umane non siano all'altezza delle aspettative aziendali. E' questo quello che emergerebbe da una ricerca condotta presso 40 tra medie e grandi aziende italiane e straniere operanti sul territorio nazionale. Dai risultati della ricerca emerge un ritratto dei manager HR che vede i professionisti del settore come poco attenti ai clienti interni ed esterni, disallineati rispetto all'organizzazione del business, non inseriti in una logica di sviluppo e non aggiornati sull'attualità del contesto economico-sociale.
Un risultato che condivido appieno e che trova riscontro nella scarsità delle practice di employer branding e quindi di attenzione e valorizzazione dei collaboratori interni ed esterni all'azienda intesi come risorse. Sembrerebbe confermato quindi dai dati della ricerca l'inadeguatezza dell'HR al ruolo che dovrebbero invece ricoprire e che si limita invece troppo spesso ad una gestione burocratica di aspetti interni, assunzioni, licenziamenti, buste paga e processi amministrativi. Una mansione insomma quindi poco se non per niente allineata al business del contesto aziendale nel quale opera e quindi non in grado di supportare l'azienda e il management dal punto di vista strategico.
E' sempre li il punto da comprendere: sono le persone il vero valore aggiunto dell'azienda e a loro va data la giusta attenzione, sia che siano già collaboratori dell'azienda che futuri potenziali dipendenti. Al professionista HR il management aziendale richiede supporto nello sviluppo del business e di essere attore del cambiamento aziendale condividendo e concentrandosi sui piani di sviluppo aziendale.
Questo vuole dire ripensare l'organizzazione, premiare il merito, valorizzare le competenze, attrarre e trattenere i migliori, fare squadra, gestire la motivazione. In una parola essere attenti alle esigenze di coloro che sono il vero motore dell'azienda e del suo business: le persone. In altre parole adottare delle politiche di employer branding volte a realizzare e promuovere l'azienda come un buon posto nel quale lavorare.

mercoledì 27 maggio 2009

Rapporto Istat 2008: l'identikit del nuovo disoccupato.

Uomo, di età compresa tra i 35 e i 54 anni, residente nel Centro-Nord, diplomato e per la maggior parte ex lavoratore del settore industria: questo è l'identikit tracciato dall'Istat del nuovo disoccupato in Italia.

Un ritratto che fa riflettere perchè non è per nulla identico a quello di sempre, residente al Sud, con contratto di lavoro precario e generalmente donna. Quello che ci restituisce il rapporto Istat è invece un'analisi estremamente preoccupante perchè riguarda la parte più ricca del Paese, le persone nel pieno dell'attività lavorativa che peraltro avevano anche un contratto a tempo indeterminato. E' su questo che occorre soffermarsi per comprendere appieno tutta la portata della crisi economica che stiamo attraversando. Nel 2008, si legge ancora nel Rapporto Istat, la crescita dei disoccupati (186 mila persone in più) ha superato quella degli occupati, 183 mila persone in più. Non succedeva dal 1995. Più di mezzo milione di famiglie (531 mila per la precisione) sono senza lavoro: vuol dire cioè che nessun componente della famiglia ha un impiego. Mentre 617 mila famiglie vivono con un reddito da attività part-time, che vuol dire circa 700 euro al mese.

Il dato più drammatico è rappresentato dai motivi dell'accresciuta disoccupazione: i licenziamenti. E non di persone con contratti a termine che non sono stati rinnovati. Qui parliamo di persone con contratti a tempo indeterminato che hanno perso il lavoro. E lo hanno perso per effetto della crisi, perchè le aziende nelle quali lavoravano hanno per la maggior parte chiuso o ridimensionato di molto i propri organici. E stiamo parlando sopratutto di piccole e medie imprese, perchè chi può, le grandi sopratutto, ricorrono alla cassa integrazione. L'occupazione nelle grandi imprese a marzo 2009 e' diminuita dello 0,1% rispetto a febbraio 2009 e dell'1,2% rispetto a marzo 2008. E' sempre l'Istat a rilevarlo. Al netto della cig (cassa integrazione guadagni) il calo occupazionale e' stato del 3,4%, dato peggiore da gennaio 2001. Sempre a marzo, le ore di cassa integrazione utilizzate dalle grandi imprese sono state 35,3 ogni mille ore lavorate, vale a dire +370,7% rispetto allo stesso mese 2008.

E' questa in breve sintesi la fotografia che traccia il Rapporto Istat 2008 sul mercato del lavoro in Italia. Nel primo trimestre del 2009 il Pil ha registrato una contrazione molto intensa: -2,5 per cento in termini congiunturali e -4,6 per cento rispetto allo stesso trimestre del 2008. Nonostante la caduta della seconda parte dell’anno, nella media del 2008 il Pil nell’Uem è cresciuto dello 0,8 per cento (2,6 per cento nel 2007). Nelle grandi economie dell’area il tasso di variazione del Pilè rimasto positivo mentre l’Italia ha registrato una diminuzione (-1,0 per cento). Di conseguenza, il differenziale negativo di crescita dell’Italia rispetto all’Uem si è ampliato ulteriormente, portandosi a 1,8 punti percentuali. In Italia, l’andamento congiunturale del Pil nel corso del 2008 è diventato progressivamente più sfavorevole: alla modesta crescita del primo trimestre (+0,5 per cento) sono seguite diminuzioni dello 0,6 per cento nel secondo, dello 0,8 per cento nel terzo e una brusca quarto (-2,1 per cento). La dinamica negativa del Pil si è ulteriormente accentuata nel primo trimestre del 2009, con una contrazione del 2,4 per cento in termini congiunturali e del 5,9 per cento rispetto allo stesso trimestre del 2008; l’acquisito annuale è pari al -4,6 per cento.

Detto questo però occorre auspicarsi che la crisi economica globale serva a rappresentare uno stimolo per lavorare sulla competitività del Paese. E allora vanno bene le riforme contrattuali, le liberalizzazioni, l'intervento sulle infrastrutture, l'ampliamanento degli amortizzatori sociali, come chiesto in questi giorni da Confindustria, ma occorre anche spingere sull'innovazione, sulla ricerca, sulle eccellenze produttive, sul merito e, sopratutto, su un nuovo paradigma del lavoro che si basi sulla consapevolezza che il lavoro e i lavoratori sono centrali in questo meccanismo di rinnovamento perchè il successo di un'azienda parte dalle risorse umane. Non esiste business, impianto, produzione, tecnologia, attività aziendale che non abbia bisogno di motivazione, impegno, capacità e volontà delle persone che vi lavorano. E questo è ancora più vero nei periodi di crisi. Ancora una volta le risorse umane sono al centro dell'azienda: ora occore vedere se manager, imprenditori e, sopratutto, gli uomini dell'HR aziendale, sapranno cogliere questa sfida.

martedì 26 maggio 2009

Occupazione: previsioni nere per il secondo semestre.

Se per l'economia s'intravede una luce in fondo al tunnel, per il lavoro siamo ancora al buio. Del resto a dire che "l'occupazione registra con ritardo i cambi di marcia e continuirà a diminuire" nell'anno in corso è stata - pochi giorni fa - la stessa Confindustria. "La maggior parte delle aziende sta vivendo una situazione di sospensione. Solo una piccola parte va molto bene. Ma ci sono anche alcune aziende che stanno entrando in crisi e temo che le conseguenze sull'occupazione e sull'economia reale si faranno sentire nella seconda parte dell'anno". E' questa l'analisi "preoccupata" che Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo ha fatto della situazione economica italiana. Invitato al convegno "Crescere tra le righe" che a Bagnaia, in provincia di Siena, ha messo di fronte per due giorni giovani studenti, banchieri, imprenditori, giornalisti, politici e rappresentanti delle istituzioni. E le cifre raccolte a proposito di occupazione da un'indagine di Unioncamere parlano chiaro: per quest'anno solo il 20 per cento delle aziende prevede di fare qualche assunzione. L'altro 80 starà alla finestra per vedere se la ripresa davvero arriverà o - peggio ancora - aspetterà soffrendo, non rinnoverà i contratti in scadenza e ridurrà la forza lavoro. Alla fine dell'anno, quindi, secondo quanto dichiarano le stesse aziende, si saranno persi altri 220 mila posti di lavoro (circa il 2 per cento sul totale). Un colpo più duro per il settore manifatturiero (meno 2,5 per cento) che per i servizi (meno 1,4), che colpisce più le regioni del Sud rispetto a quelle del Nord e che vede come "vittime predestinate" le piccole imprese, quelle dove gli ammortizzatori sociali sono minimi e dove, dunque, il lavoro negato ha un impatto immediatamente devastante sulle condizioni di vita della famiglia.

Quando l'azienda è di ridotte dimensioni, spiega infatti lo studio Unioncamere, "è più difficile e oneroso mantenere inalterata, e quindi in parte sotto-utilizzata, la capacità produttiva in attesa che cresca di nuovo la domanda". Di fatto, rispetto alle previsioni occupazionali, il pessimismo riguarda soprattutto le aziende artigiane e quelle con meno di dieci dipendenti. Insomma, se l'area metropolitana più legata alle grandi aziende e ai servizi può in qualche modo pensare di difendersi aspettando tempi migliori e conservando le forze necessarie a ripartire, per la "ditta" (indotto o distretto industriale in primis) cavarsela sarà più difficile. La cartina geografica è in questo senso spietata: le cose vanno decisamente meno peggio nelle province del Nord rispetto a quelle del Centro. E il Mezzogiorno sta peggio di tutti. Le grandi aree dell'industria nazionale assorbono meglio il colpo e, come sempre avviene in stato di crisi, i più fragili pagano lo scotto maggiore. A perdere il lavoro saranno per primi i precari, cui basta non rinnovare i contratti ( le previsioni sul 2009 fissano un dimezzamento delle assunzioni a tempo determinato) e le donne. Risulta più a rischio il personale non qualificato che i quadri o i dirigenti. Detto questo, la durezza della partita non si misura solo sui licenziamenti, ma anche sulla cassa integrazione che - pur garantendo un reddito al dipendente - ne dimezza di fatto il potere d'acquisto. Anche qui i dati confermano le preoccupazione della Cei: nei primi quattro mesi dell'anno, ha sottolineato nei giorni scorsi Confindustria, il ricorso a questa forma di sostegno è balzato ai livelli del 1993. E ad aprile, conferma l'Inps, c'è stato un boom: rispetto allo stesso mese del 2008 le ore la cassa integrazione ordinaria ha registrato un balzo dell'864,2 per cento.