venerdì 23 novembre 2007

Template e job posting per promuovere l'employer brand.

L'utilizzo sempre maggiore di Internet e dei siti di eRecruiting da parte dei candidati nella ricerca di lavoro obbliga le aziende ad un utilizzo dei vari job board non solo in modo tattico, limitato quindi alla necessità di ricoprire uno specifico ruolo vacante, ma strategico con l'obiettivo di sfruttare ogni occasione di contatto con un'audience di potenziali candidati per promuovere l'employer brand aziendale.

Purtroppo questo non avviene così spesso. Basta fare un giro tra gli annunci pubblicati sui vari Monster, Infojob, Talent Manager per scoprire che la stragrande maggioranza degli annunci sono uguali. Stessa impostazione, uguali i caratteri, simile il look and feel dell'annuncio. Alcuni azzardano l'inserimento di un logo ma il risultato rimane sostanzialmente lo stesso e se vi prendete la briga di consultare qualche annuncio noterete che nessuno riesce a catturare l'attenzione in modo particolare, efficace e distintivo. Il risultao è un'occasione persa per promuovere l'employer brand aziendale in un contesto di riferimento importante come quello dei job board.

La soluzione è semplice e viene già offerta dalle stesse aziende che gestiscono i siti di eRecruiting: usare un template personalizzato.

L'obiettivo di ogni recruiting manager è quello di attirare l'attenzione verso la propria proposta, renderla distintiva dalle altre e al tempo stesso promuovere la cultura della propria azienda mettendo in risalto inq uesto modo l'employer value proposition aziendale.

I template associati alla pubblicazione degli annunci di lavoro online sono in grado di rispondere a questa esigenza. Proprio per questo personalmente incoraggio le aziende ad utilizzare i template nella pubblicazione di annunci di lavoro online e a considerarli come parte integrante della propria strategia di recruiting. Ma per far questo occorre studiarli, pensarli, idearli, renderli coerenti con il messaggio che si vuole trasmettere e con le attività di comunicazione promosse dall'azienda verso il target dei potenziali candidati.

Dedicare un pò di attenzione a questo tipo di attività vuol dire incrementare la propria visibilità, credibilità e, più in generale, migliorare la riconoscibilità dell'employer brand aziendale.

martedì 20 novembre 2007

eRecruiting e social networking nella ricerca di lavoro.

Abbiamo visto nel post precedente come studenti e neolaureati usino ormai abitualmente il web per cercare il primo impiego e informarsi sulle possibilità di carriera nelle aziende, e come i professional, giovani e meno giovani, usino internet per gettare un occhio discreto alla ricerca di nuove opportunità professionali.

Le percentuali di utilizzo sono di tutto rispetto e quasi doppie rispetto all'abitudine di consultare i vecchi annunci di RPQ sulla stampa quotidiana L'80 per cento dichiara di utilizzare i principali siti di eRecruiting, il 29 per cento per facilitare l’attività della ricerca preferisce usare i metamotori di ricerca di lavoro – quei siti specializzati che raccolgono e indicizzano tutte le offerte di lavoro presenti sulla rete internet – e il 10,1 per cento frequenta siti di social networking. Basta questo per vedere come la rete abbia radicalmente cambiato le abitudini di vita delle persone e di come sia diventata in breve lo strumento di comunicazione indispensabile con il quale le direzioni risorse umane delle aziende debbono confrontarsi per "comunicare" la propria employer value proposition aziendale.

La conoscenza dei meccanismi d'uso della rete e dei siti maggiormente consultati diventa quindi un elemento fondamentale nelle attività di pianificazione della comunicazione dell'employer brand aziendale. Per poter sapere dove pianificare ho bisogno di sapere dove trovare il mio target di riferimento, che in questo caso non è il consumatore finale ma il potenziale collaboratore della mia azienda, ne più ne meno come avviene nella pianificazione delle campagne pubblicitarie di prodotto o di corporate brand. Proprio per questo si tende a definire "recruitment marketing" questa attività.

Per far comprendere come questo tema sia delicato e vada affrontato con attenzione e preparazione basta osservare ad esempio, parlando di siti di social networking, che questi sono più utilizzati dai laureati in ingegneria ed informatica che con il 15,2 per cento si confermano come i più “smanettoni”, mentre all’ultimo posto nell’utilizzo degli strumenti partecipativi del Web 2.0 ci sono i laureati in chimica, fisica e biologia, con il 3,3 per cento (fonte: "Best100, le aziende preferite dagli italiani" VI ed., 2007, clicca qui per info).

L'utilizzo sempre più massiccio dei siti di eRecruiting, dei siti di social networking e anche il fenomeno dei blog, sono tutti segnali che vanno interpretati come l'affacciarsi all’orizzonte di una nuova tipologia di navigatori, che una recente ricerca di Forrester descrive come giovani, studenti (28 per cento) e di scolarità elevata (47 per cento), assidui utilizzatori di Internet con una grande elasticità mentale, più aperti alle novità e maggiormente adusi all’utilizzo delle tecnologie.

Persone che fanno del proprio utilizzo di Internet non un momento di assimilazione passiva di informazione ma piuttosto una esperienza di utilizzo della rete partecipativa e attiva, mediante la quale intessere relazioni sociali, costruirsi il proprio network di relazioni e di conoscenze, esprimere le proprie esperienze e le proprie opinioni, anche per quanto attiene in modo più specifico la reputazione dell’azienda come employer.

Le conseguenze, per quanto riguarda la comunicazione aziendale e le modalità con le quali gli uomini delle risorse umane cercano di intercettare i talenti e di costruire la propria immagine di employer di riferimento sono evidenti così come evidente è la necessità da parte delle aziende di non trascurare nelle proprie politiche di employer branding quelle persone che sempre di più utilizzano il proprio spazio virtuale per raccontare in presa diretta le loro storie, anche di vita aziendale, con un impatto facilmente immaginabile sull’immagine delle imprese come employer of choice.

Da questo punto di vista un commento negativo su un'azienda, non solo su un prodotto o servizio, ma anche su una esperienza di lavoro, può avere l'effetto di una valanga inarrestabile con danni di immagine estremamente significativi e difficilmente recuperabili.

All'Ocse, calcolano che il 35 per cento delle persone connesse in larga banda abbia pubblicato qualcosa sul web, il 25 per cento di coloro che hanno meno di 30 anni ha un suo blog, la metà dei teenager fa parte di un network sociale in rete.

E' in buona sostanza la nuova frontiera del Web 2.0 con la quale le direzioni risorse umane delle aziende saranno chiamate sempre di più a confrontarsi per non perdere la sfida di accaparrarsi i migliori talenti che sempre di più tendono a coinvolgere quella fascia di età della popolazione che va dai 18 ai 24 anni e che sempre di più sarà difficile per le aziende intercettare, per campagne di marketing, di prodotto o anche - per quello che in questo contesto più ci interessa - di recruiting anche se al momento tra i siti maggiormente utilizzati o meglio apprezzati per qualità e servizi rimangono gli operatori di eRecruiting a cominciare da Monster che con il 57,7 per cento degli utilizzatori si conferma come sito di riferimento per il settore in Italia, seguito da Infojobs al 26,9 per cento, dal Trovalavoro del Corriere.it al 15,6 per cento e da Talent Manager al 14,7 per cento. Jobrapido con il 13,7 per cento degli utilizzatori è invece leader dei metamotori di ricerca di lavoro e Linked In tra quelli di social networking sia pure ancora con una bassa percentuale di utilizzo, appena lo 0,54 per cento indice di un segmento ancora di nicchia.

Siti di eRecruiting preferiti da studenti, neolaureati e professional nella ricerca di lavoro:
(fonte: Best100, le aziende preferite dagli italiani - VI edizione, 2007)
1. Monster 57,69%
2. Infojobs 26,94%
3. Trovalavoro Corriere.it 15,56%
4. Talent Manager 14,77%
5. Jobrapido.it 13,74%
6. Stepstone 10,53%
7. Cambiolavoro 5,69%
8. Miojob Repubblica.it 4,12%
9. Jobcrawler 3,33%
10. Cercolavoro 2,48%

venerdì 16 novembre 2007

I talenti si cercano sul web.

Il lavoro ormai si cerca quasi esclusivamente sul web, tranne nei casi in cui i contatti personali o le vecchie “raccomandazioni” permettono di ottenere una scorciatoia nella difficile strada delle ricerca di un lavoro.

E’ questo che emerge dall’analisi delle risposte sulle modalità e abitudini di ricerca di lavoro dei 4.956 intervistati tra studenti, neolaureati e professional che hanno partecipato alla VI edizione della Best100, le aziende preferite nelle quali lavorare - anno 2007 la cui versione integrale è disponibile in questi giorni (per informazioni).

Con l’80 per cento degli intervistati che dichiara di utilizzare i principali siti di eRecruiting per cercare lavoro o monitorare le opportunità di crescita professionale, il 50,8 per cento che afferma di consultare le aree lavoro dei siti web aziendali alla ricerca di vacancies, il 29 per cento che per facilitare l’attività della ricerca preferisce usare i metamotori di ricerca di lavoro – quei siti specializzati che raccolgono e indicizzano tutte le offerte di lavoro presenti sulla rete internet – e il 10,1 per cento che frequenta siti di social networking, si vede come la rete abbia radicalmente cambiato le abitudini di vita delle persone e di come sia diventata in breve lo strumento di maggiore utilizzo da parte di chi, neolaureato o professional, è interessato a trovare il primo impiego o una nuova opportunità professionale.

Sono dati di estremo interesse soprattutto per chi in azienda è chiamato a mettere in atto delle strategie di employer branding perché danno una chiara indicazione verso quale mezzo sia meglio orientarsi per comunicare l’employer value proposition aziendale.

Tra tutti poi le donne sono le più attive nell’utilizzo di Internet come strumento per la ricerca di lavoro. L’80,8 per cento dichiara di usare i principali siti di eRecruiting rispetto al 79,7 per cento degli uomini, il 56,9 per cento di frequentare le aree lavoro dei siti web aziendali a caccia di opportunità, contro il 47,1 per cento degli uomini che invece manifestano maggiore familiarità con i siti di social networking, 12,2 per cento rispetto al 7 per cento delle donne.

Gli uomini poi tendono a preferire i contatti personali, il cosidetto personal networking, nella ricerca di opportunità professionali, 48,8 per cento rispetto al 42,7 per cento delle donne. Contatti personali che sono poi largamente usati dai professional, 48,1 per cento, che registrano anche una maggiore incidenza nell’utilizzo dei siti di eRecruiting, 80,6 per cento, con un picco di utilizzo nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, con l’86,8 per cento, rispetto al segmento studenti e neolaureati, fermi al 78,1 per cento.

In continuo declino la stampa quotidiana, che se ottiene un rispettabile 45,9 per cento risulta in realtà in costante declino rispetto al 63,4 per cento dei dati del 2002, mentre relativi al solo segmento degli studenti universitari risultano essere la partecipazione a job fair universitari, piuttosto che la consultazione delle schede aziende nei career book e comunque con dati molto limitati non solo nei confronti del totale della popolazione investigata nell’indagine ma anche al solo segmento relativo a studenti e neolaureati.


Solo il 12 per cento infatti usa partecipare ai job fair universitari e solo il 10 per cento consulta un career book per avere una panoramica delle aziende e delle possibilità di carriera e di crescita professionale. Un dato che dovrebbe far riflettere su come la sola partecipazione ai job meeting non serva a comunicare in modo efficace ed efficiente le proprie politiche di employer branding.

Se ci spostiamo invece sull’analisi dell’utilizzo di strumenti di social networking scopriamo che sono i professional la categoria nella quale si registra un maggiore utilizzo e una maggiore familiarità. Risultano essere usati dall’11,6 degli intervistati rispetto al 5,7 degli studenti e dei neolaureati contrariamente a quello che succede negli Usa con il fenomeno Facebook che ha negli studenti universitari la massa critica di utlizzatori per quanto sia stato recentemente aperto a tutti.


Tra tutti poi i siti di social networking sono più utilizzati dai laureati in ingegneria ed informatica che con il 15,2 per cento si confermano come i più “smanettoni”, mentre all’ultimo posto nell’utilizzo degli strumenti partecipativi del Web 2.0 ci sono i laureati in chimica, fisica e biologia, colo il 3,3 per cento del totale li utilizza, seguiti dai diplomati, 6,6 per cento.


Modalità di ricerca di lavoro in Italia per studenti, neolaureati e professional.
(Fonte: "Best100, le aziende preferite dagli italiani" - VI edizione, 2007)
1. Siti web di eRecruiting - 80,0%
2. Sezioni lavoro dei siti web aziendali - 50,8%
3. Contatti personali - 46,2%
4. Annunci RPQ sulla stampa quotidiana - 45,9%
5. Metamotori di annunci di lavoro - 29,9%
6. Siti web di social networking - 10,1%
7. Consultazione di career book - 8,9%
8. Partecipazione a job meeting - 7,0%

martedì 13 novembre 2007

Employer branding e business game: il successo de L'Orèal.

Uno dei casi di maggiore successo nella promozione e valorizzazione dell’employer brand aziendale è senza dubbio rappresentato da L’Oréal che da sette anni ha lanciato con grande successo una manifestazione denominata L’Oréal e-Strat Challenge.

Si tratta di un business game che permette agli studenti di tutto il mondo di mettere alla prova le proprie abilità manageriali, strategiche e decisionali e che si è rivelato essere una delle più innovative strategie di reclutamento degli ultimi anni i cui risultati sono andati ben oltre le apsettative iniziali: 177 mila studenti coinvolti provenienti da 2200 scuole di 128 diversi Paesi nel mondo.
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Il business game è molto intrigante: raggruppati in team composti da tre persone, lo scopo del gioco è quello di gestire un portafoglio di prodotti del settore cosmetici e competere per la leadership contro altre quattro compagnie virtuali in sei round che durano approssimativamente sei mesi. Gli studenti sono chiamati a prendere delle decisioni che riguardano tutti gli aspetti della gestione dell’azienda: dal prezzo ai prodotti, ai volumi, alla ricerca e sviluppo, al marketing, alla pubblicità, al posizionamento del brand. Ogni round nel gioco corrisponde ad un periodo di sei mesi nella vita reale e le altre 4 aziende virtuali sono parte attiva del gioco perché non solo operano per loro conto ma rispondono attivamente ad oigni cambio di strategia di ogni singola squadra partecipante. L'obiettivo è quello di ottenere il maggior valore del proprio SHARE PRICE INDEX (SPI) per accedere alle fasi successive del gioco e arrivare alla finale che si svolge a Parigi.

Oltre ad avere un’importanza educativa, il concorso L’Oréal e-Strat Challenge è uno degli strumenti di student recruiting più innovativi esistenti sul mercato oltre che un’efficacissimo mezzo per promuovere l’employer brand dell’azienda permettendo alla società di entrare in contatto con giovani di alto potenziale in tutto il mondo che può avere interessanti risvolti anche per le attività di reclutamento.


«Per noi il reclutamento è una fonte di vantaggio competitivo - ha avuto modo di commentare Geoff Skingsley, vice presidente alle Risorse Umane L'Oréal - E-Strat Challenge è il trampolino di lancio ideale per una promettente carriera in azienda». Non a caso i tre vincitori dell’edizione 2005, un gruppo italiano, sono tutti stati assunti in un’azienda che in Italia ha un trend di assunzioni di circa 70-80 persone l’anno dei quali i due terzi sono neolaureati.

Tra le altre cose, il gioco ha permesso all’azienda di arrivare a conoscere un numero di possibili candidati più vasto di quanto non sarebbe stato possibile effettuando il tradizionale giro delle principali scuole aziendali del mondo. E' un’incontro reale tra l’azienda e gli studenti e la cosa maggiormente interessante è che le candidature si sono moltiplicate in tutto il mondo, dall’università di Fudan in Cina a l’Esade in Spagna, da Coppead in Brasile a Hec in Francia ed Harvard negli Stati Uniti.

La competizione è nata con un obiettivo chiaro: far conoscere a migliaia di studenti in tutto il mondo la ricchezza dell’industria cosmetica e promuovere l’employer brand dell’azienda. Alla luce dei dati registrati possiamo dire che questo obiettivo è stato perfettamente centrato.

venerdì 9 novembre 2007

Engagement e relazioni industriali.

L’effetto Marchionne contagia anche altre aziende. La scelta della Fiat di anticipare ai dipendenti 30 euro di aumento in busta paga non è rimasta isolata. A condividerla hanno incominciato subito dopo l’annuncio dell’amministratore delegato del gruppo automobilistico di Torino anche altre aziende tra cui la Riello, l’Ilva di Taranto e l’Alenia del gruppo Finmeccanica che si sono mosse tutte sulla scia dei 30 euro della Fiat, subito seguite da altre aziende che hanno superato questa soglia.

Si tratta della Brembo del vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei che ha dichiarato di voler aumentare i salari ai propri dipendenti di 43 euro al mese o di aziende come le Acciaierie Valbruna di Vicenza che hanno deciso per un rialzo di 50 per arrivare alla Eaton e alla Sbe di Molfalcone che hanno raggiunto un’intesa su 115 euro di aumento sostanzialmente in linea con le richieste sindacali di 117 euro.

Da questo punto di vista la scelta della Fiat e delle altre aziende che ad essa si sono ispirate nel concedere anticipi sui futuri aumenti retributivi va interpretata come un’apertura e al tempo stesso un monito nei confronti dei sindacati.

Un’apertura perché dimostra come con un meccanismo meno ritualizzato i periodi buoni per le aziende si possano trasformare più velocemente in un vantaggio in busta paga per i lavoratori. “E’ un atto di attenzione nei confronti dei lavoratori ed è coerente con le riflessioni che da tempo Confindustria sta portando avanti per rendere più moderne le relazioni con il sindacato” ha detto il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. Questo perché a suo parere “occorre superare la ritualità che caratterizzano da almeno trent’anni i rinnovi contrattuali e trasformarli davvero in strumenti utili per la tutela dei lavoratori e le esigenze di competitività delle imprese”. Un monito quindi al mondo sindacale sull’opportunità di continuare con le vecchie liturgie legate a conflittualità e trattative ad oltranza ma anche un monito a quell’ala dura di Federmeccanica che non intende venire incontro alle richieste dei sindacati.

Da questo punto di vista quindi la mossa di Marchionne è di fondamentale importanza perché segna un nuovo paradigma nei rapporti tra aziende e lavoratori, che è il tema che qui ci interessa sviluppare.

In questo caso dal vertice di un’azienda si ammette implicitamente che un buon bilancio non viene costruito solamente dai top manager aziendali, con le loro abilità pagate milioni di euro l’anno, ma anche dai lavoratori, siano essi operai, impiegati o quadri intermedi. Mi sembra se non una rivoluzione copernicana almeno un elemento di grande novità nell’intendere il rapporto azienda-lavoratore in questo Paese con il riconoscimento implicito della centralità delle risorse umane.

Anche se di dimensioni minori rispetto alla Fiat ci sono molte altre aziende che registrano buoni bilanci e ad essi hanno certamente contribuito i loro dipendenti. Corretto quindi riconoscere ad essi dei riconoscimenti non soltanto verbali ma anche tangibili. L’operazione che solo alla Fiat costerà 3 milioni di euro al mese comprensivi dei contributi risponde, per usare le parole di Montezemolo “alla necessità di rimboccari le maniche per far crescere il paese e riconoscere la centralità delle persone che hanno contribuito ai risultati di Fiat”.

Se il segnale dato dalla Fiat non è disgiunto da quello delle altre imprese è comunque significativo che arrivi da un’azienda che in passato si è segnalata in non pochi casi per essere stata un’esponente dell’ala intransigente di Confindustria ma che oggi, impegnata in uno sforzo di risanamento e di crescita, non vuole dover mettere in conto una nuova stagione di conflittualità in fabbrica. Da questo punto di vista il segnale segue un doppio binario, il primo verso il sindacato, l’altro verso Federmeccanica e quegli associati che non sono per nulla contenti dell’iniziativa Fiat.
E sulla logica del doppio binario secondo Confindustria occorre muoversi anche per i rinnovi contrattuali, mantenendo da una parte il contratto nazionale che è e resterà il pilastro della contrattazione nazionale e dall’altra la trattativa di secondo livello come scelta discrezionale dell’impresa variabile a seconda delle performance aziendali.

Da questo punto di vista il tema assume quindi una dimensione più ampia e complessa perché non è solo una questione di soldi è anche una questione di coinvolgimento e motivazione dei dipendenti agli obiettivi di business aziendali (che poi è uno degli obiettivi impliciti di una politica di gestione delle risorse umane votata al rafforzamento dell’employer value proposition aziendale).

Il contratto nazionale riguarda tutte le imprese e non tutte le aziende condividono con Fiat e i casi che abbiamo appena visto una stagione ricca di successi. Se il contratto nazionale proponesse obiettivi legati a aumenti retributivi sic et simpliciter che non tengano conto delle singole e specifiche realtà aziendali si rischierebbe solo di provocare degli squilibri mettendo a rischio la sopravvivenza di alcune piccole e medie imprese. Proprio per questo la linea della doppia contrattazione sembra essere quella più adeguata anche per ridurre le conflittualità in azienda e motivare le persone. Spostare il baricentro della contrattazione collettiva in azienda cioè nel luogo dove si prendono le decisioni rilevanti per far crescere la produttività significa ridisegnare anche il ruolo del contratto nazionale che sempre più andrebbe valorizzato come rete di protezione per quei lavoratori che possono contare solo su questo livello di contrattazione. Per gli altri lavoratori che possono avere retribuzioni più elevate occorre lasciare a livello decentrato il ruolo regolatore della dinamica retributiva. Per far quadrare il tutto occorre però che le parti sociali adottino un nuovo sistema che preveda lo spostamento di quote di salario da contrattare a livello decentrato e che possano sostituire e non aggiungersi a quelle definite a livello nazionale.

Misurare in modo più efficace la produttività serve a premiare il merito perché serve a coinvolgere sempre di più il lavoratore nella sfida della crescita aziendale. Alla Loro Piana, azienda leader nel settore tessile dell’abbigliamento, l’ultimo accordo ha portato una serie di novità: il premio di qualità è stato irrobustito economicamente e da annuale è diventato mensile in modo da essere maggiormente recepito dai lavoratori, inoltre è stato inserito un premio di produttività con indicatori che riguardano ogni fase della produzione, con in più un premio che incentiva la presenza, le cui voci sommate assieme possono arrivare al 10 per cento della retribuzione.

Alla Timavo e Tiene impresa della provincia di Treviso a settembre hanno firmato un accordo che prevede, fra gli altri, un parametro di retribuzione legato al Mol nella misura fissa del 4,5 per cento. Nessun tetto massimo al raggiungimento dell’obiettivo, ma una percentuale direttamente legata al risultato operativo che si ispira chiaramente ad esperienze consolidate come quelle del profit sharing del Regno Unito.

Il segnale che viene quindi da quella parte più illuminata del mondo imprenditoriale mi sembra comunque molto importante perché va nella direzione di innovare i rapporti fra azienda e dipendenti e di costruire di conseguenza un sistema di relazioni industriali coerente con le sfide che le imprese debbono affrontare sui mercati globalizzati.

Innovare queste relazioni significa anche distribuire ai dipendenti i frutti delle innovazioni organizzative, tecnologiche e di mercato che permettono di aumentare la produttività dei fattori produttivi, lavoro compreso. Ma significa anche diminuire la conflittualità, creare un ambiente di lavoro più sereno e rispettoso della dignità delle persone, aumentare il grado di coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’impresa e allineare i propri collaboratori agli obiettivi di business dell’azienda.Ma significa anche rendere coerente e trasparente l’employer value proposition aziendale che si comunica all’esterno per attrarre in azienda le risorse di maggior valore iniziando a costruire dall’interno una ambiente di lavoro che non renda solo uno slogan l’affermazione “la nostra azienda è un buon posto nel quale lavorare”. Ed è proprio sulla base di questa coerenza e di questa consapevolezza che va il plauso ai vari imprenditori che si sono allineati sulla scia di quanto fatto da Marchionne e Montezemolo, con l’augurio che questo nuovo modo di intendere i rapporti tra azienda e dipendenti venga fatto proprio anche da chi, in questo momento e non solo in Federmeccanica, rimane su posizioni di chiusura ormai superate.

mercoledì 7 novembre 2007

La svolta socialdemocratica della Fiat.

Ho deciso di dedicare gli interventi di questa settimana al gruppo Fiat ovvero al nuovo approccio che la gestione Marchionne ha portato in un'azienda simbolo del capitalismo italiano nelle relazioni industriali, nel rispetto dei lavoratori e più in generale nel tentativo di costruire un nuovo sistema di relazioni tra azienda e lavoratori che vada verso una valorizzazione di questi ultimi attraverso il riconoscimento del merito e della dignità del lavoro quale paradigma fondamentale di una moderna relazione impresa-lavoratore.


Proprio per questo ritengo utile riportare l'articolo di Marco Ferrante su Il Foglio di mercoledi 31 ottobre 2007, "Le ragioni per cui la Fiat è diventata socialdemocratica":
Può un imprenditore europeo fare l’imprenditore senza essere un po’ socialdemocratico?
Questo tema è presente nei discorsi dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, almeno dallo scorso anno. Ben prima, cioè, del suo intervento a Mattinata, in provincia di Foggia, il 22 settembre scorso a una riunione di economisti industriali, raccolti intorno alla rivista l’Industria, diretta da Fabio Gobbo, consigliere economico della presidenza del Consiglio. Il discorso di Marchionne ebbe una certa eco. Fu subito ripreso dal Corriere della Sera (che ne pubblicò ampi stralci) e commentato il giorno successivo da Piero Fassino, il quale si compiacque di vedere in Marchionne, appunto, un vero socialdemocratico.
Ma che cosa pensa Marchionne, qual è il suo profilo culturale di manager industriale? Che cosa emerge dai suoi interventi pubblici? Già nel dicembre del 2006, ospite del top management di General Electric a Crotonville, Marchionne aveva posto un accattivante problema di cultura economica al suo uditorio. Il senso del ragionamento – poi ripreso successivamente – era il seguente: i modelli di capitalismo sono molti, ne conosciamo almeno tre, quello americano, quello europeo, quello asiatico. Questi tre capitalismi hanno un solo fattore comune: il mercato, cioè un sistema di concorrenza su qualità e prezzo. Per il resto i tre capitalismi corrispondono a modelli profondamente differenti. Quello americano è caratterizzato da una cultura del merito e del reddito come ricompensa del lavoro, dell’attivismo, della volontà. Quello asiatico è fatto di grandi chaebol, strutture di stato, fondi sovrani, regole selvatiche che si vanno organizzando. Infine, quello europeo, il modello più complesso in cui – secondo Marchionne – la differenza è data dalla responsabilità sociale, cioè dalla quota di spesa pubblica che viene convogliata sul sistema di welfare (quota di spesa che a metà degli anni Settanta cresce e si separa dalla dinamica americana, anche a causa della crescita del potere del sindacato).
Questa quota di spesa pubblica si ottiene mediante prelievo fiscale. Il prelievo è un dato strutturale con cui cittadini e imprese devono fare i conti. Questa premessa è importante per capire come ha fatto Marchionne a gestire l’avvio del risanamento di Fiat senza entrare in conflitto con il sindacato. Se si vive in un sistema in cui il prelievo fiscale è sostanzialmente incomprimibile, l’unico modo per neutralizzare il costo è recuperarlo laddove va a finire, le casse dello stato. E’ la tesi sostenuta su Libero da Mario Unnia: la vera ragione per cui il capo della Fiat faceva il socialdemocratico andava cercata nella necessità dell’azienda di trattare con il governo il problema di Termini Imerese – stabilimento in cui il costo del lavoro è eccessivo rispetto ad altre aree europee dove si potrebbero
sviluppare investimenti. Certo, in questo tipo di riflessioni c’è un tic culturale: chi nei confronti della Fiat conserva una forma di ostilità costruita sul rigetto dell’egemonia economica e di potere esercitata da Torino sul sistema industriale italiano, finirà prima o poi col dire che da questo punto di vista non c’è differenza tra marchionnismo e romitismo. Ma non è vero (lo stesso Romiti lo sa, e ha contestato la ricostruzione fatta da Marchionne sul risanamento della Fiat in una conversazione con Ferruccio de Bortoli, dopo il discorso di Mattinata).
Per Romiti, erede della cultura di Valletta e del senatore Agnelli, le dimensioni del sistema pubblico, delle sue pretese, delle sue esigenze, corrispondevano al perimetro nazionale in cui principalmente si svolgeva l’attività della Fiat. La Fiat dava impiego a 250.000 persone, forniva un contributo cospicuo al gettito fiscale, in cambio chiedeva protezioni di mercato (ma tutti i mercati nazionali erano protetti) e contributi pubblici. Per questo Romiti non ha mai considerato centrale il prodotto (come del resto Gianni Agnelli), e ha sempre considerato centrale lo scambio politico azienda-stato.
Il marchionnismo è un’altra cosa. Al centro dell’azione c’è un prodotto da vendere su un mercato domestico privo ormai di protezioni, e sui mercati internazionali in cui la quota di mercato è ridotta della metà rispetto ai bei tempi. Marchionne ritiene che in un mondo ideale non dovrebbe esserci rapporto di scambio con il sistema pubblico. Ma essendoci, va limitato a un equo rapporto di ragionevole contrattualismo. Non si può intervenire drasticamente sulla parte fiscale né sul costo del lavoro. Bene. Allora, sulla prima questione con i suoi uomini cerca di trattare quanto possibile: per esempio, un emendamento alla Finanziaria chiede la proroga del regime della rottamazione per le auto a emissioni inquinanti (che comunque è un provvedimento la cui ricaduta non è solo un vantaggio per la Fiat, il vantaggio vale per tutti i produttori, e da un punto di vista ambientale dovrebbe concorrere al bene pubblico), e c’è da risolvere la questione Termini Imerese. Sul costo del lavoro, invece, Marchionne cerca di stabilire relazioni sindacali fondate sulla fiducia nella leadership (finché la leadership ha successo), sulla capacità di mantenere le promesse e sulla contropartita economica, come ha fatto a partire dal contratto integrativo firmato anche dalla Fiom lo scorso anno.
Il tema della leadership è ricorrente nello schema del discorso-tipo dell’a.d. di Fiat, sin dal novembre del 2006, quando all’assemblea generale dell’Anfia, spiega per la prima volta che i successi raggiunti sono il risultato di una nuova idea di leadership fondata su cinque pilastri: la nuova Fiat è una meritocrazia, ha capacità di guidare il cambiamento, ha introiettato il concetto di competizione, raggiunge risultati in linea con la concorrenza, sa mantenere le promesse.
Questo approccio deve convincere i mercati, ma anche il sindacato con cui il nuovo capo della Fiat riesce a
stabilire un clima partecipativo. Spiega a più riprese – anche con una certa dose di furbizia – che il peso del costo del lavoro in fondo può essere sopportato. Quando decide di ridurre il personale, simbolicamente lo fa da sinistra: liquidando alcune centinaia (il numero esatto non è mai stato reso noto) di manager intermedi. E’ come se un serio processo di riforma liberale delle corporazioni cominciasse dai notai e non dai tassisti. Anche da questo punto di vista, Marchionne si comporta in un certo senso da socialdemocratico, perché sa governare un fase di dura ristrutturazione ribaltando gli schemi: qui sono i manager burocratizzati ad andare via. La mossa gli guadagna benevolenza sociale nella fase di avvio del risanamento e la rincorsa dell’establishment di sinistra, spiazzato dalla fine del vecchio sistema di relazioni industriali, che presiedeva al rapporto con la Fiat (sistema reso più complesso dall’aura torinese e dalla regalità sostitutiva).
E qui arriviamo alla terza declinazione del socialdemocratismo di SM, quella individuata in una conversazione con Daniele Manca del Corriere della Sera da Piero Fassino, dopo il discorso di Mattinata. Secondo Fassino quando Marchionne sostiene “che va accettata la sfida dell’innovazione e del nuovo, senza abbandonare al suo destino chi subisce le conseguenze del cambiamento”, si serve di “una forte impostazione riformista, direi socialdemocratica”. In realtà c’è una forzatura. Il senso del ragionamento che l’intervistatore induce in Fassino va inquadrato nella discussione pubblica sul nuovo orizzonte culturale di una forza di sinistra moderata. Marchionne è intervenuto a Mattinata proprio mentre uscivano due pamphlet – “Il Partito democratico per la rivoluzione liberale” di Michele Salvati” e soprattutto “
Il liberismo è di sinistra” di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – entrambi destinati a incidere nel dibattito sull’ispirazione economica del nuovo partito. La frase di Marchionne sul senso del liberalismo come protezione degli esclusi – elemento di base del liberalismo (strumento in sé, cioè né di destra né di sinistra) – sembrava andare nella direzione del liberalismo compassionevole di Alesina-Giavazzi e sembrava concorrere alla definizione di un liberalismo compatibile con l’ethos di sinistra. Ma chi lo conosce bene ritiene che Marchionne non abbia simili preoccupazioni. E’ un solido liberale cresciuto in una educazione anglosassone. Nel discorso all’Unione industriale di Torino del giugno 2006, che viene considerato il suo discorso programmatico – l’unico su cui si era sviluppato un dibattito, prima di quello di Mattinata – la principale citazione è, insieme con quelle di un paio di eroi del sogno americano (Mark Twain e Warren Buffet), una frase di Joseph Schumpeter: “Il processo del cambiamento industriale rivoluziona continuamente la struttura economica dal suo interno, distruggendo continuamente la vecchia e creando continuamente una nuova. Questo processo di Distruzione Creativa rappresenta l’essenza stessa del capitalismo. Il capitalismo è questo, e le aziende che operano secondo le sue regole si devono adeguare”. E’ vero, Shumpeter, economista di formazione giuridica, fu un liberale anomalo, riteneva che i prezzi si potessero fissare attraverso equazioni come nella teoria dell’equilibrio economico generale. (La circostanza gli guadagnò la disistima di Mises che lo malsopportava perché, dopo essere stati quasi amici, avendo frequentato insieme il seminario di Eugen von Böhm- Bawerk, Schumpeter ebbe più successo in vita.) Ma, checché ne pensasse Mises, c’è una parte dell’opera schumpeteriana, questa sullo sviluppo e la distruzione creatrice, fondamentalmente liberale. Marchionne se ne serve per definire la sua filosofia Dunque, nessun socialdemocratismo – se non con riguardo all’equità prodotta dalle politiche liberali. Persino lo scaltro intervento sulla trattativa sindacale, l’aumento di 30 euro unilateralmente anticipato da Marchionne non va guardato come un’operazione di segno ideologico: non c’è socialdemocrazia, né paternalismo (o maternalismo secondo la versione del Manifesto che ha commentato “Mamma Fiat”). C’è il pr agmatismo (liberale) di chi intende risolvere problemi legati alla produzione: sono disposto a fare delle concessioni salariali, voglio in cambio elasticità e disponibilità sulla produzione (per esempio la gestione degli straordinari).
Ora, succede che per impadronirsi di un modello di successo, alcuni nel dibattito italiano cerchino di piegarlo ai loro schemi. Marchionne è diventato oggetto di inseguimento da parte di leader riformisti sindacali e politici (da Epifani a Fassino) che non volevano restare spiazzati dallo spostamento del confronto fuori dai confini culturali del vecchio patto tra produttori. Per il sindacato che opera sul campo, a cominciare dalla Fiom, la questione è ancora più delicata. C’è in ballo l’identità e il ruolo. Come ha detto una volta il segretario della Fiom torinese Giorgio Airaudo: “Marchionne è il nostro peggior concorrente”.
E un’analoga sensazione di disagio e spiazzamento si può ravvisare in un pezzo di dirigenza confindustriale. Il pragmatismo di Marchionne e dei suoi uomini rischia di andare più lontano nella riforma del sistema di relazioni industriali, nel rapporto con il sindacato, nella struttura dei contratti di quanto non sia riuscito all’ideologismo militante e antisindacale nella battaglia sull’articolo 18.
Marco Ferrante (pubblicato su Il Foglio del 31 ottobre 2007).

martedì 6 novembre 2007

Le risorse umane e sfide industriali nella Fiat di Marchionne.

Per completezza di informazione sull'ultimo post pubblicato sul rinnovato slancio dell'employer brand del gruppo Fiat mi sembra utile riportare l'intervento di Sergio Marchionne al forum Capitalismo e Responsabilità Sociale del settembre 2007 che delinea l'attenzione verso la valorizzazione delle risorse umane anche in una grande azienda chiamata ad affrontare il mercato e la concorrenza, proprio quella politica di attenzione e del merito che ha portato la Fiat a diventare la terza azienda maggiormente ambita nella quale lavorare nell'edizione 2007 della Best100, le aziende preferite dagli italiani.


«La storia della Fiat richiede di essere collocata e compresa all'interno del contesto sociale in cui il turnaround è stato realizzato. Gestire un'impresa in Europa significa prima di tutto avere a che fare con un modello di capitalismo che ha caratteristiche molto specifiche. Alcuni economisti sono convinti che il sistema europeo — per migliorare produttività, efficienza e profitti — debba convergere verso il modello americano. Non credo che questo tipo di convergenza sia possibile nel medio termine, ma non credo neppure sia auspicabile. Le organizzazioni europee sono nate e cresciute in un terreno culturale fertilizzato da due condizioni storiche: una tradizione di apertura al mercato relativamente recente e un forte senso di responsabilità sociale. Non esiste un unico modello di capitalismo. Stati Uniti, Asia, Europa sono tutti in competizione fra loro ma nessuno converge verso nessun altro. L'unico denominatore comune è il mercato. Queste organizzazioni danno il meglio di sé quando sono messe a bagno nella concorrenza aperta e globale.
È il concetto di responsabilità sociale che differenzia l'Europa dagli Stati Uniti. Secondo un'analisi dell'Ocse, la spesa pubblica sociale è circa il 27% del Pil in Francia, Germania e Italia — in Svezia addirittura il 38% — mentre si aggira intorno al 16% negli Usa. La differenza tra i livelli di spesa pubblica — europeo e americano — si manifesta in modo evidente a partire dal 1975. Da quel momento vi è un notevole aumento della spesa in Europa mentre in Usa si mantiene costante nel tempo. Indagare quali siano i motivi è compito dei politici. Qualunque sia la ragione, queste differenze esistono e chiunque operi in Europa deve considerare questo particolare contesto sociale e politico. Sono convinto, non solo sulla base della mia esperienza in Fiat, ma anche in altre realtà industriali europee, che si può e si deve cercare il dialogo costruttivo. E che le soluzioni si possono trovare.
In Fiat abbiamo ottenuto risultati importanti sulla via del dialogo. Dopo dieci anni— e senza un'ora di sciopero, che è un caso più unico che raro per l'Italia— è stato rinnovato il contratto integrativo aziendale. Dopo dieci anni sono stati assunti in fabbrica i primi giovani, in cambio di turni straordinari di lavoro. Abbiamo siglato un importante accordo con le istituzioni locali per la riqualificazione di Mirafiori, il più grande complesso industriale italiano, che ha comportato anche l'avvio di una nuova linea di produzione e l'assorbimento della cassa integrazione congiunturale. I risultati raggiunti da Fiat dimostrano che trasformazioni simili sono possibili, anche in un Paese con una forte coscienza sindacale e con quello che la maggior parte dei commentatori anglosassoni chiamerebbero «struttura del lavoro poco flessibile». Se dovessi scegliere tra cercare di risolverela relazione di General Motors con i suoi sindacati (Uaw) o di trattare i livelli occupazionali in Europa, io preferirei la seconda.
Non c'è dubbio che la produttività e la flessibilità rimangono gli elementi chiave del nostro sviluppo industriale. In questo contesto, l'Italia è decisamente indietro rispetto al resto dell'Europa, ma resto convinto che è sulla strada del dialogo costruttivo che i problemi si possono risolvere. Se una società liberale deve durare nel tempo, è nel suo interesse sostenere coloro che sono colpiti dal cambiamento.
L'Europa può e deve distinguersi nella creazione e nella gestione di mercati liberi, riconoscendo e trattando in modo efficace le conseguenze delle loro attività sui propri membri. E deve farlo in maniera onesta e giusta, senza cadere preda di certi meccanismi troppo protettivi che sono già in uso in alcuni paesi membri e che, soprattutto in Italia, possono seriamente minacciare la ripresa industriale del Paese. Ma l'impegno esiste e non può essere ignorato. Lo sviluppo di un'impresa non è solo una questione di tecnologia o di risorse finanziarie. È prima di tutto una questione di cultura. Le nostre imprese hanno bisogno di abbracciare la sfida del nuovo e pensare al futuro come a una grande opportunità. Hanno bisogno di un contesto trasparente e altamente competitivo. Hanno bisogno di vivere la cultura del cambiamento come una necessità. Di misurarsi ogni giorno sul merito, di fondare le proprie radici sui valori della concorrenza e del mercato. Quello che ogni Paese può fare è garantire che questa partita si giochi alla pari, che le opportunità siano le stesse offerte ad altre imprese in altri Paesi. In Italia non sempre queste condizioni sono così facili da trovare.
Qualche ragione c'è se gli investimenti esteri sono ancora così bassi. E queste ragioni si chiamano burocrazia, servizi, infrastrutture, tasse e costi di gestione. Dalla mia esperienza personale, ho visto che i vincoli burocratici alla fine proteggono aziende inefficienti, aziende che non hanno prospettive di sviluppo e nella maggior parte dei casi scaricano i costi sui clienti. La burocrazia non fa che alimentare se stessa. Perché porta la società a chiudersi a riccio, a proteggere quello che già esiste, senza mai affrontare le sfide del cambiamento. Allo stesso modo, ci sono altri elementi importanti per costruire un sistema economico che possa mostrarsi «attrattivo» non soltanto per chi opera già oggi in Italia ma anche per le aziende estere. Penso al miglioramento dei servizi pubblici, alla creazione di una rete di infrastrutture efficiente e moderna, a cominciare dal sistema viario e dei trasporti in genere. Ma penso anche alla riduzione della pressione fiscale e ad un tema come il costo dell'energia che in Italia è decisamente eccessivo rispetto al resto dei Paesi più industrializzati.
Tutti questi ragionamenti valgono a maggior ragione per il Sud Italia, dove è prioritario colmare il gap nei confronti del resto del Paese. Ma la prospettiva con cui ci si deve muovere non può essere quella assistenziale. La cultura dell'assistenzialismo produce dipendenza e spegne lo spirito di iniziativa e il senso di responsabilità. Il lavoro si crea solo se i meccanismi economici sono efficienti e se gli stimoli del mercato sono forti. In questo modo anche la cultura del cambiamento e della competizione possono trovare un terreno fertile. Credo che il caso della Fiat sia solo un esempio della ristrutturazione dell'industria in Europa e della forza positiva del cambiamento. Il nostro cambiamento è stato realizzato da un gruppo di manager internazionali, molti dei quali italiani, che hanno abbracciato l'idea della competizione globale e che sono disposti a mettersi in gioco e a coinvolgere gli altri stakeholders nel sistema economico per raggiungere i necessari livelli di competitività. Grandi organizzazioni sono il risultato dell'esercizio della leadership di uomini e di donne che comprendono il concetto di servizio, di comunità, di rispetto fondamentale per gli altri e che ispirano.
C'è una storia che oggi non vi ho raccontato. In un certo senso è troppo presto per raccontarla, è la storia della trasformazione personale dei leader che sono stati coinvolti nel rilancio della Fiat e delle persone che gestivano. Ci sono dozzine di esempi simili e indubbiamente più validi e significativi: General Electric negli ultimi 25 anni, prima con Jack Welch ed adesso con Jeff Immelt; la resurrezione di Ibm operata da Lou Gerstner, le esperienze di Robert Oppenheimer nel Manhattan project con il team che ha costruito la bomba atomica, l'incredibile vittoria di Bili Clinton nelle elezioni presidenziali del 1992. Ma l'elemento comune a tutti questi casi è che tutti hanno lasciato un segno indelebile sulla formazione e sulla crescita dei leader. Sono cambiati per sempre.
Stiamo imparando come si vive da sopravvissuti e stiamo sviluppando le capacità di pensare al futuro in modo aggressivo e positivo. E lo stiamo facendo in un paese che è stato spesso etichettato dall'Economist strutturalmente e cronicamente perdente con titoli quali «Arrivederci. dolce vita» e «Don't cry for me, Italia». Ma questa è la prova che c'è speranza per tutti noi: nemmeno gli inglesi hanno la capacità di andare oltre i limiti della credulità e dell'immaginazione. Dopo tutto, la storia della Fiat è la storia del potere della leadership e della mancanza di paura di un gruppo di leader integri impegnati a raggiungere gli obiettivi. Come dice Mel Gibson nel film Braveheart: «Gli uomini non seguono gli uomini. Gli uomini seguono il coraggio». E forse dobbiamo dare ragione a un teorico politico molto frainteso — Niccolò Machiavelli — che circa 600 anni fa disse: «Il ritorno al principio è spesso determinato dalla semplice virtù di un uomo. Il suo esempio ha una tale influenza che gli uomini buoni desiderano imitarlo e quelli cattivi si vergognano di condurre una vita contraria al suo esempio». In Fiat stiamo costruendo un gruppo guidato da uomini e donne di virtù. Ed è grazie al loro coraggio e alla loro virtù se oggi posso concludere citando la fine del libro ‘‘Una storia tra due città'' di Charles Dickens e parafrasando le ultime parole: «It is a far, far better thing Fiat does, than it has ever done. It is a far, far better place it is going to than it has ever gone». Tradotto: «Fiat sta facendo molto, molto meglio di quanto non abbia mai fatto. Sta andando verso un posto migliore, molto migliore di quanto non sia mai stata».
Sergio Marchionne

lunedì 5 novembre 2007

La cura Marchionne funziona anche sull'employer branding del gruppo Fiat.

Solo nel 2004 nessuno avrebbe scommesso un euro sul rilancio del gruppo di Torino che una serie di scelte manageriali errate avevano portato sull’orlo del baratro. Oggi ad appena 3 anni di distanza la Fiat è in grande forma: cresce il fatturato, crescono le quote di mercato, così come i profitti, cala l’indebitamento e il titolo viaggia da mesi sopra i 20 euro

Ora se è vero che la parte rilevante di questi risultati economici è da attribuirsi più che all’auto, che nonostante la crescita delle quote in Italia e Europa ha un margine operativo dell’1,2 per cento, alla controllata CNH leader nel settore delle macchine agricole e del movimento terra e all'Iveco che registrano utili impressionanti con un margine operativo rispettivamente del 7 e del 6 per cento, è innegabile che la cura Marchionne abbia rappresentato per la Fiat la vera svolta come testimoniato dal risalto dato dalla stampa a questo periodo straordinariamente positivo.


Un aspetto poco analizzato in questo contesto e tuttavia molto interessante per il tema che qui si tratta è l’identico successo della Fiat targata Marchionne dal punto di vista dell’employer value proposition aziendale. Uno degli elementi che più colpisce nella nuova gestione e che meno è stato analizzato dalla stampa è il fatto che in soli tre anni Marchionne non solo sia riuscito a risanare l’azienda e a dargli un piano industriale credibile, ma sia anche riuscito a trasformare la Fiat in un employer of choice, riportando l’azienda in cima alle ambizioni lavorative di diplomati e laureati italiani.

Solo nel 2004 l'azienda di Torino era al 14° posto nella classifica delle aziende maggiormente ambite nelle quali lavorare in Italia. Nel 2007 la Fiat si è invece posizionata al 3° posto della classifica Best100 sulle aziende preferite dagli italiani.

Ora se è indubbio che nel miglioramento dell’appetibilità dell’azienda come employer di riferimento abbia contato il suo risanamento industriale, parte rilevante in questo percorso va però anche attribuita alla politica dei talenti portata avanti da Sergio Marchionne sin dal suo arrivo in azienda unitamente ad una rinnovata attenzione alla dignità e valorizzazione delle risorse umane presenti in azienda.

Quelli che sono stati definiti dai media i “Marchionne Boys”, sono manager quasi tutti tra i 40 e i 50 anni, che sono stati rimotivati e ai quali sono stati affidati i posti chiave. Il più grande successo di Marchionne sta proprio nel fatto che le persone che hanno portato al successo la Fiat in questi anni sono le stesse persone che già vi lavoravano da tempo, in posizioni però che non gli consentivano di esprimere il loro potenziale di talenti, che venivano evidentemente impegnate male e su progetti non strategici.

“Ho promosso ragazzi che erano qui da anni, ma che venivano soffocati dai loro capi” ha detto Marchionne in un’intervista rilasciata qualche settimana fa al quotidiano La Repubblica concludendo di essere “per il riconoscimento della capacità delle persone”. Tant'è che poi quando decide di ridurre il personale lo fa “simbolicamente da sinistra” come afferma Marco Ferrante su Il Foglio del 31 ottobre 2007 “liquidando alcune centinaia di manager intermedi. E’ come se un serio processo di riforma liberale delle corporazioni cominciasse dai notai e non dai tassisti”.

Una mossa che fa guadagnare a Marchionne benevolenza sociale nella fase di avvio del programma di risanamento perché si ribaltano gli schemi: ad andare via sono i manager burocratizzati e meno produttivi. Un messaggio inequivocabile diretto a tutta la forza lavoro e in particolare agli operai.

Non a caso è lo stesso Marchionne che afferma in una intervista a La Repubblica “quando sono arrivato alla Fiat sono rimasto allibito delle condizioni dei dipendenti e mi sono posto l’impegno di umanizzare l’ambiente di lavoro. Si cominciano a vedere i risultati del nostro impegno con l’asilo, ma anche con la nuova mensa, le docce e gli spogliatoi e abbiamo intenzione di aprire un supermarket sempre a Mirafiori. A noi stanno molto a cuore le condizioni dei lavoratori».

E’ in questo modo che si è potuta restituire la dignità del lavoro agli operai degli stabilimenti che erano stati quasi completamente abbandonati, ricreando una cultura della produzione che la Fiat aveva perduto. “Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino senza averne responsabilità le conseguenze degli errori dei colletti bianchi” è sempre il pensiero di Marchionne. Ed è proprio questo pensiero che lo a portato a decidere di anticipare in busta paga dal mese di ottobre 30 euro a tutti i dipendenti Fiat in attesa della conclusione delle trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici con una mossa a sorpresa che ha stupito tutti, sindacati in primis, e che punta anche a stabilire nuovi percorsi nelle relazioni sindacali.

Non a caso Confindutria ha applaudito mentre i sindacati, che pure hanno riconosciuto il diverso approccio di Marchionne verso i lavoratori, hanno manifestato contrarietà confermando per tutta risposta le agitazioni previste per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici che non sembrano tuttavia aver registrato grandi consensi tra gli operai degli stabilimenti impegnati in una protesta pure corretta dal punto di vista umano e sociale: la necessità di avere stipendi adeguati ad un mantenimento delle famiglie in modo dignitoso.

Guardando il tema senza preconcetti non può sfuggire il senso di un’iniziativa, quella dei 30 euro, che mira a premiare chi ha partecipato al successo dell’impresa, un riconoscimento meritocratico diffuso che premia il senso di appartenenza.

Le sfide per il 2008 per il gruppo guidato da Marchionne sono altrettanto importanti. Rimane da mettere mano al rilancio dell’Alfa Romeo e per certi versi anche della Lancia, consolidare le buone perfomrmance di Fiat pur senza nuovi modelli da lanciare in un mercato europeo che si spera archivi le debolezze del 2007 e nel quale l'impegno maggiore sarà il rilancio della rete delle concessionarie, senza contare le incognite rappresentate dalla possibilità di ripetere per l'auto i buoni successi ottenuti in Brasile nell'anno in corso anche per il 2008 e gli impatti che il probabile rallentamento del mercato delle costruzioni negli Usa come conseguenza dei mututi subprime che potrebbe avere sulla gallina dalle uova d’oro del gruppo, la Cnh.

Vedremo dal punto di vista del business come la squadra guidata da Sergio Marchionne saprà gestire questa fase di consolidamento.

Dal punto di vista delle risorse umane e delle relazioni industriali ci auguriamo che Marchionne prosegua sulla strada intrapresa e che come successo nel caso dell’anticipo contrattuale ci siano altre aziende e altri imprenditori a seguirlo guardando con un’ottica nuova e più attenta al vero elemento distintivo e determinante per il successo delle aziende oggi: le persone che ci lavorano.