mercoledì 7 novembre 2007

La svolta socialdemocratica della Fiat.

Ho deciso di dedicare gli interventi di questa settimana al gruppo Fiat ovvero al nuovo approccio che la gestione Marchionne ha portato in un'azienda simbolo del capitalismo italiano nelle relazioni industriali, nel rispetto dei lavoratori e più in generale nel tentativo di costruire un nuovo sistema di relazioni tra azienda e lavoratori che vada verso una valorizzazione di questi ultimi attraverso il riconoscimento del merito e della dignità del lavoro quale paradigma fondamentale di una moderna relazione impresa-lavoratore.


Proprio per questo ritengo utile riportare l'articolo di Marco Ferrante su Il Foglio di mercoledi 31 ottobre 2007, "Le ragioni per cui la Fiat è diventata socialdemocratica":
Può un imprenditore europeo fare l’imprenditore senza essere un po’ socialdemocratico?
Questo tema è presente nei discorsi dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, almeno dallo scorso anno. Ben prima, cioè, del suo intervento a Mattinata, in provincia di Foggia, il 22 settembre scorso a una riunione di economisti industriali, raccolti intorno alla rivista l’Industria, diretta da Fabio Gobbo, consigliere economico della presidenza del Consiglio. Il discorso di Marchionne ebbe una certa eco. Fu subito ripreso dal Corriere della Sera (che ne pubblicò ampi stralci) e commentato il giorno successivo da Piero Fassino, il quale si compiacque di vedere in Marchionne, appunto, un vero socialdemocratico.
Ma che cosa pensa Marchionne, qual è il suo profilo culturale di manager industriale? Che cosa emerge dai suoi interventi pubblici? Già nel dicembre del 2006, ospite del top management di General Electric a Crotonville, Marchionne aveva posto un accattivante problema di cultura economica al suo uditorio. Il senso del ragionamento – poi ripreso successivamente – era il seguente: i modelli di capitalismo sono molti, ne conosciamo almeno tre, quello americano, quello europeo, quello asiatico. Questi tre capitalismi hanno un solo fattore comune: il mercato, cioè un sistema di concorrenza su qualità e prezzo. Per il resto i tre capitalismi corrispondono a modelli profondamente differenti. Quello americano è caratterizzato da una cultura del merito e del reddito come ricompensa del lavoro, dell’attivismo, della volontà. Quello asiatico è fatto di grandi chaebol, strutture di stato, fondi sovrani, regole selvatiche che si vanno organizzando. Infine, quello europeo, il modello più complesso in cui – secondo Marchionne – la differenza è data dalla responsabilità sociale, cioè dalla quota di spesa pubblica che viene convogliata sul sistema di welfare (quota di spesa che a metà degli anni Settanta cresce e si separa dalla dinamica americana, anche a causa della crescita del potere del sindacato).
Questa quota di spesa pubblica si ottiene mediante prelievo fiscale. Il prelievo è un dato strutturale con cui cittadini e imprese devono fare i conti. Questa premessa è importante per capire come ha fatto Marchionne a gestire l’avvio del risanamento di Fiat senza entrare in conflitto con il sindacato. Se si vive in un sistema in cui il prelievo fiscale è sostanzialmente incomprimibile, l’unico modo per neutralizzare il costo è recuperarlo laddove va a finire, le casse dello stato. E’ la tesi sostenuta su Libero da Mario Unnia: la vera ragione per cui il capo della Fiat faceva il socialdemocratico andava cercata nella necessità dell’azienda di trattare con il governo il problema di Termini Imerese – stabilimento in cui il costo del lavoro è eccessivo rispetto ad altre aree europee dove si potrebbero
sviluppare investimenti. Certo, in questo tipo di riflessioni c’è un tic culturale: chi nei confronti della Fiat conserva una forma di ostilità costruita sul rigetto dell’egemonia economica e di potere esercitata da Torino sul sistema industriale italiano, finirà prima o poi col dire che da questo punto di vista non c’è differenza tra marchionnismo e romitismo. Ma non è vero (lo stesso Romiti lo sa, e ha contestato la ricostruzione fatta da Marchionne sul risanamento della Fiat in una conversazione con Ferruccio de Bortoli, dopo il discorso di Mattinata).
Per Romiti, erede della cultura di Valletta e del senatore Agnelli, le dimensioni del sistema pubblico, delle sue pretese, delle sue esigenze, corrispondevano al perimetro nazionale in cui principalmente si svolgeva l’attività della Fiat. La Fiat dava impiego a 250.000 persone, forniva un contributo cospicuo al gettito fiscale, in cambio chiedeva protezioni di mercato (ma tutti i mercati nazionali erano protetti) e contributi pubblici. Per questo Romiti non ha mai considerato centrale il prodotto (come del resto Gianni Agnelli), e ha sempre considerato centrale lo scambio politico azienda-stato.
Il marchionnismo è un’altra cosa. Al centro dell’azione c’è un prodotto da vendere su un mercato domestico privo ormai di protezioni, e sui mercati internazionali in cui la quota di mercato è ridotta della metà rispetto ai bei tempi. Marchionne ritiene che in un mondo ideale non dovrebbe esserci rapporto di scambio con il sistema pubblico. Ma essendoci, va limitato a un equo rapporto di ragionevole contrattualismo. Non si può intervenire drasticamente sulla parte fiscale né sul costo del lavoro. Bene. Allora, sulla prima questione con i suoi uomini cerca di trattare quanto possibile: per esempio, un emendamento alla Finanziaria chiede la proroga del regime della rottamazione per le auto a emissioni inquinanti (che comunque è un provvedimento la cui ricaduta non è solo un vantaggio per la Fiat, il vantaggio vale per tutti i produttori, e da un punto di vista ambientale dovrebbe concorrere al bene pubblico), e c’è da risolvere la questione Termini Imerese. Sul costo del lavoro, invece, Marchionne cerca di stabilire relazioni sindacali fondate sulla fiducia nella leadership (finché la leadership ha successo), sulla capacità di mantenere le promesse e sulla contropartita economica, come ha fatto a partire dal contratto integrativo firmato anche dalla Fiom lo scorso anno.
Il tema della leadership è ricorrente nello schema del discorso-tipo dell’a.d. di Fiat, sin dal novembre del 2006, quando all’assemblea generale dell’Anfia, spiega per la prima volta che i successi raggiunti sono il risultato di una nuova idea di leadership fondata su cinque pilastri: la nuova Fiat è una meritocrazia, ha capacità di guidare il cambiamento, ha introiettato il concetto di competizione, raggiunge risultati in linea con la concorrenza, sa mantenere le promesse.
Questo approccio deve convincere i mercati, ma anche il sindacato con cui il nuovo capo della Fiat riesce a
stabilire un clima partecipativo. Spiega a più riprese – anche con una certa dose di furbizia – che il peso del costo del lavoro in fondo può essere sopportato. Quando decide di ridurre il personale, simbolicamente lo fa da sinistra: liquidando alcune centinaia (il numero esatto non è mai stato reso noto) di manager intermedi. E’ come se un serio processo di riforma liberale delle corporazioni cominciasse dai notai e non dai tassisti. Anche da questo punto di vista, Marchionne si comporta in un certo senso da socialdemocratico, perché sa governare un fase di dura ristrutturazione ribaltando gli schemi: qui sono i manager burocratizzati ad andare via. La mossa gli guadagna benevolenza sociale nella fase di avvio del risanamento e la rincorsa dell’establishment di sinistra, spiazzato dalla fine del vecchio sistema di relazioni industriali, che presiedeva al rapporto con la Fiat (sistema reso più complesso dall’aura torinese e dalla regalità sostitutiva).
E qui arriviamo alla terza declinazione del socialdemocratismo di SM, quella individuata in una conversazione con Daniele Manca del Corriere della Sera da Piero Fassino, dopo il discorso di Mattinata. Secondo Fassino quando Marchionne sostiene “che va accettata la sfida dell’innovazione e del nuovo, senza abbandonare al suo destino chi subisce le conseguenze del cambiamento”, si serve di “una forte impostazione riformista, direi socialdemocratica”. In realtà c’è una forzatura. Il senso del ragionamento che l’intervistatore induce in Fassino va inquadrato nella discussione pubblica sul nuovo orizzonte culturale di una forza di sinistra moderata. Marchionne è intervenuto a Mattinata proprio mentre uscivano due pamphlet – “Il Partito democratico per la rivoluzione liberale” di Michele Salvati” e soprattutto “
Il liberismo è di sinistra” di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – entrambi destinati a incidere nel dibattito sull’ispirazione economica del nuovo partito. La frase di Marchionne sul senso del liberalismo come protezione degli esclusi – elemento di base del liberalismo (strumento in sé, cioè né di destra né di sinistra) – sembrava andare nella direzione del liberalismo compassionevole di Alesina-Giavazzi e sembrava concorrere alla definizione di un liberalismo compatibile con l’ethos di sinistra. Ma chi lo conosce bene ritiene che Marchionne non abbia simili preoccupazioni. E’ un solido liberale cresciuto in una educazione anglosassone. Nel discorso all’Unione industriale di Torino del giugno 2006, che viene considerato il suo discorso programmatico – l’unico su cui si era sviluppato un dibattito, prima di quello di Mattinata – la principale citazione è, insieme con quelle di un paio di eroi del sogno americano (Mark Twain e Warren Buffet), una frase di Joseph Schumpeter: “Il processo del cambiamento industriale rivoluziona continuamente la struttura economica dal suo interno, distruggendo continuamente la vecchia e creando continuamente una nuova. Questo processo di Distruzione Creativa rappresenta l’essenza stessa del capitalismo. Il capitalismo è questo, e le aziende che operano secondo le sue regole si devono adeguare”. E’ vero, Shumpeter, economista di formazione giuridica, fu un liberale anomalo, riteneva che i prezzi si potessero fissare attraverso equazioni come nella teoria dell’equilibrio economico generale. (La circostanza gli guadagnò la disistima di Mises che lo malsopportava perché, dopo essere stati quasi amici, avendo frequentato insieme il seminario di Eugen von Böhm- Bawerk, Schumpeter ebbe più successo in vita.) Ma, checché ne pensasse Mises, c’è una parte dell’opera schumpeteriana, questa sullo sviluppo e la distruzione creatrice, fondamentalmente liberale. Marchionne se ne serve per definire la sua filosofia Dunque, nessun socialdemocratismo – se non con riguardo all’equità prodotta dalle politiche liberali. Persino lo scaltro intervento sulla trattativa sindacale, l’aumento di 30 euro unilateralmente anticipato da Marchionne non va guardato come un’operazione di segno ideologico: non c’è socialdemocrazia, né paternalismo (o maternalismo secondo la versione del Manifesto che ha commentato “Mamma Fiat”). C’è il pr agmatismo (liberale) di chi intende risolvere problemi legati alla produzione: sono disposto a fare delle concessioni salariali, voglio in cambio elasticità e disponibilità sulla produzione (per esempio la gestione degli straordinari).
Ora, succede che per impadronirsi di un modello di successo, alcuni nel dibattito italiano cerchino di piegarlo ai loro schemi. Marchionne è diventato oggetto di inseguimento da parte di leader riformisti sindacali e politici (da Epifani a Fassino) che non volevano restare spiazzati dallo spostamento del confronto fuori dai confini culturali del vecchio patto tra produttori. Per il sindacato che opera sul campo, a cominciare dalla Fiom, la questione è ancora più delicata. C’è in ballo l’identità e il ruolo. Come ha detto una volta il segretario della Fiom torinese Giorgio Airaudo: “Marchionne è il nostro peggior concorrente”.
E un’analoga sensazione di disagio e spiazzamento si può ravvisare in un pezzo di dirigenza confindustriale. Il pragmatismo di Marchionne e dei suoi uomini rischia di andare più lontano nella riforma del sistema di relazioni industriali, nel rapporto con il sindacato, nella struttura dei contratti di quanto non sia riuscito all’ideologismo militante e antisindacale nella battaglia sull’articolo 18.
Marco Ferrante (pubblicato su Il Foglio del 31 ottobre 2007).

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