mercoledì 28 maggio 2008

Employer branding e talenti.

Vi segnalo un video sull'employer branding e, più in generale, sul tema dei talenti, realizzato da Think Communication, un laboratorio sulla comunicazione d’impresa realizzato dagli studenti della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma, come attività proposta dalle cattedre di “Sociologia Industriale e Post-industriale” del Prof. Renato Fontana e “Sociologia dell’Organizzazione” del Prof. Patrizio Di Nicola.

venerdì 23 maggio 2008

Da Confindustria l'invito a una nuova stagione di relazioni industriali.

Consentitemi oggi una breve divagazione dal tema centrale che in questa sede solitamente affrontiamo, ovvero quello delle tematiche legate all'employer branding e ai nuovi modelli di recruiting legati al web 2.0 per un tema solo apparentemente lontano da questo, quello delle relazioni industriali.

L'occasione la pone la prima uscita pubblica di Emma Mercegaglia, la neoeletta presidente dellassociazione degli industriali Confindustria, che nel suo discorso di insediamento lancia l'invito ad una nuova stagione di rapporti tra aziende e sindacati nell'interesse della produttività delle imprese e, di conseguenza, dei lavoratori che possono in questo modo contare su incentivi economici legati appunto all'aumento della produttività.

L'invito di Emma Marcegaglia è quello di lasciarsi alle spalle la lunga stagione di antagonismo che ha visto contrapposti sindacati e industriali. «Possiamo chiudere una lunga stagione di antagonismo, pensare - afferma - in maniera nuova il confronto con i sindacati e il modello di relazioni industriali, che oggi sono obsolete». «Mi sembra che si stia esaurendo nella coscienza collettiva - continua Marcegaglia - quel conflitto di classe fra capitale e lavoro che ha segnato la storia degli ultimi 150 anni». Da qui l'invito ai sindacati di raggiungere l'intesa sulla riforma della contrattazione entro pochi mesi, con l'obiettivo di chiudere già a settembre. «La produttività è ciò che è mancato in questi anni alla nostra economia. Solo con un forte recupero di produttività sarà possibile conciliare crescita e occupazione, competitività e incremento dei salari: tutti obiettivi essenziali per il Paese» aggiunge Emma Marcegaglia.

Certo, siamo in un momento di crisi economica: per il 2008, ricorda Marcegaglia, è prevista una crescita zero, "malattia dell'Italia". Ma proprio per questo, è il momento di agire: «La situazione ecomica non consente tatticismi o rinvii». «Voglio dire con chiarezza che l'approvazione, ieri, del decreto per la detassazione degli straordinarie dei premi variabili è un segnale importante. E' una misura che Confindustria pone da tempo».

I cambiamenti sono di necessità vitale per Confindustria anche per il mercato del lavoro. Per il mercato del lavoro serve, afferma Marcegaglia, «l'adozione di modelli di flexicurity. Non è il posto di lavoro che deve essere garantito, ma un reddito e una formazione adeguati, come accade nei Paesi con sistema di sicurezza sociale più moderna e attivi».

Per la neopresidente di Confindustria è necessario alleggerire il contratto nazionale per dare più spazio e risorse alla retribuzione legata all’aumento di produttività e ai risultati aziendali. Sulla stessa lunghezza d’onda il ministro del lavoro Maurizio Sacconi secondo cui con la riforma contrattuale si può chiudere la stagione dell’antagonismo con il sindacato e le relazioni industriali debboni diventare «da tendenzialmente conflittuali a tendenzialmente di tipo cooperativo e partecipativo».

Progetto che sembra stia a cuore anche alla Cisl di Raffaele Bonanni che giudica una priorità la democrazia economica e la partecipazione dei lavoratori allavita dell’impresa e anche alla Uil di Luigi Angeletti secondo cui la relazione del neopresidente di Confindustria è «condivisibile soprattutto la parte sui rapporti con il sindacato e la costruzione di un sistema contrattuale e di relazioni menoconflittuali». Unica voce fuoir dal coro quella di Guglielmo Epifani della Cgil secondo cui c’èp una sottovalutazione pesante dei slari dei lavoratori e del problema dei prezzi che pregiudica il confronto sul sistema contrattuale perché conclude Epifani «noi andremo al confronto per chiedere più salario».

«Le imprese sono al centro perché sono il luogo di lavoro in cui imprenditori e dipendenti sentono un interesse comune»: è con questa frase che Emma Marcegaglia lancia un invito a una nuova stagione di relazioni industriali, improntate sulla collaborazione con le parti sociali nell’interesse comune dell’impresa e dei lavoratori e non nella contrapposizione, chiedendo «ai sindacati di negoziare nell’interesse dei lavoratori e non di qualche ideologia».

Vedremo nei prossimi mesi se questo nuovo spirito con il quale gli industriali dichiarano di vole raffrontare la partita delle relazioni industriali, peraltro già emerso in occasione ad esempio del rinnovo dei contratti dei metalmeccanici (ricordate gli aumenti di salario accordati ancor prima dell'accordo sul rinnovo dalla Fiat di Marchionne e dagli altri imprenditori?), sia in grado di stabilire effettivamente una nuova stagione nei rapporti tra aziende e collaboratori. Ma per far questo serve che i sindacati cambino realmente pelle e si adeguino al nuovo contesto socioeconomico nel quale sono chiamati a fare la loro parte, senza tralasciare la tutela dei più deboli e dei lavoratori più svantaggiati ma senza per questo appiattire verso il basso anche le condizioni degli altri lavoratori.

Il testo della relazione di Emma Marcegaglia

lunedì 19 maggio 2008

Employer branding: istruzioni per l'uso.

Abbiamo già visto come il tema dell'employer branding sia molto particolare e specifico e come, spesso, la sua pratica possa confondersi con il tema più ampio relativo alla corporate identity o, ancora, a quello della promozione pubblicitaria, sia quella di prodotto che relativa alle campagne di recruitiment marketing.

Questo distinguo può apparire pretestuoso, ma non lo è, perchè sono molte le aziende che promuovono campagne pubblicitarie di recruitment marketing, sul web, sui giornali, nelle job fair universitarie, ma non fanno nulla per assicurarsi che al proprio interno venga creato un ambiente di lavoro che sia in grado di trasmettere un'employer experience unica e distintiva e sopratutto coerente con il messaggio che, con la campagna di recruitment marketing, si cerca di trasmettere fuori dall'azienda.

Prima di raccontare al mercato del lavoro chi siete o cosa vorreste pensassero di voi i talenti e più in generale i vostri futuri collaboratori, occorre focalizzare gli sforzi e gli investimenti nel verificare che l'immagine che abbiamo intenzione di promuovere corrisponda alla realtà.

Questo in buona sostanza vuol dire mettere in pratica, prima di pensare a qualsiasi attività di comunicazione verso l'esterno, una serie di attività:

  • Domandare ai vostri attuali collaboratori cosa pensano dell'azienda come posto in cui lavorare;
  • Individuare quali sono, agli occhi degli attuali collaboratori, i punti di forza e di debolezza della vostra azienda;
  • Analizzare come i vostri attuali collaboratori vedono l'azienda rispetto ai competitor;
  • Organizzare un focus group con i collaboratori assunti più di recente al fine di individuare quali sono gli elementi e le considerazioni che li hanno spinti a scegliere la vostra azienda rispetto alle altre;
  • Domandare sempre ai nuovi assunti se l'azienda ha mantenuto verso di loro le aspettative iniziali. Se no, analizzare quali aspettaive sono andate deluse;
  • Assicurarsi che tutti queste indicazioni siano analizzati e usati nell'audit dell'employer branding e fornire un feedback ai vostri collaboratori;
  • Coinvolgere, fin dal principio, i manager di prima linea e il middle management nel processo di costruzione dell'employer branding aziendale, perchè occorre sempre ricordarsi del detto "employees join companies but leave managers".

Sono pochi punti fondamentali, ma ognuno di essi è un presupposto indispensabile per il successo di qualsiasi azione volta a migliorare l'immagine dell'azienda come buon posto nel quale lavorare. Non si può pensare di sviluppare un piano di sviluppo dell'employer brand aziendale se queste azioni non vengono messe in pratica. Solo in questo modo si raggiungerà l'obiettivo di rendere più interessante l'employer experience agli occhi dei talenti e dei futuri collaboratori ottenendo al tempo stesso altre benefici tangibili: minore turnover, minore assenteismo, maggiore produttività e un clima di lavoro migliore.

lunedì 12 maggio 2008

Risorse umane: gestione dei talenti e questione demografica.

Il dibattito sulla questione demografica nella gestione dei talenti e più in generale nelle politiche di gestione delle risorse umane negli Stati Uniti, così come in Europa e in Italia in particolare, inizia a diventare di sempre maggiore attualità per l'incremento dell'età media della popolazione attiva.

Sul tema volevo segnalare un'interessante articolo di Cristina casadei, Il manager apre il dossier demografia, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 7 maggio 2008:


"Sullo sfondo dell’atlante concuiBoston Consulting Group ha disegnato le strategie dei top manager per creare valore dalle risorseumanedi qui al 2015 c’è la gestione dei talenti. «Non è una novità, se ne parla da molti anni – ammette Elisa Crotti, consulente del gruppo americano – ma la mancanza di talenti rimane la principale barriera per la crescita e la competitività delle aziende». Così rientra tra le prime 4 sfide in 9 dei 17 Paesi dove lavorano gli executive delle 4.700 grandi imprese,contattate dalla società per elaborare lo studio intitolato "Creating people advantage".
La sfida per trovare il vantaggio competitivo attraverso la gestione delle persone riguarderà tutti i top manager e non soltanto il direttore delle risorse umane. In passato figura marginale - perché diversamente dai manager che gestiscono "i numeri" il suo lavoro è sempre stato considerato difficilmente quantificabile - adesso anche per il capo del personale vengono definiti degli standard in modo da poterne valutare i risultati. In 12 dei 17 Paesi tra le prime quattro sfide c’è quella di farne un partner strategico; la pressione per arrivare a questo risultato è più forte in Cina,
Cile e Argentina dove i dipartimenti delle risorse umane sono marginali, poco strutturati o in molti casi mancano. In Italia «i top si aspettano da questo manager un supporto fondamentale per guidare i dipendenti nella direzione indicata dalla strategia di gestione e per coinvolgerli nei processi di business – osserva Crotti –. Per questo lavorerà al fianco della prima linea per capirne e interpretarne le esigenze e poter impostare il recruiting e tutti gli interventi formativi in maniera strategica».
Sia in Paesi sviluppati, che in via di sviluppo, della sete di talenti soffrono tutte le aziende. Quelle di grandi dimensioni e le multinazionali, per riuscire ad assicurarsene un numero sufficiente hanno allargato la ricerca che «da locale è diventata globale. La Francia per trovare personale ospedaliero si rivolge al Nordafrica, la Germania è andata alla ricerca di ingegneri in India – continua Crotti –. Nel recruiting dei talenti, la concorrenza tra paesi emergenti e sviluppati sta diventando spietata perché sono vitali allo stesso modo per entrambi: i primi ne hanno bisogno per svilupparsi, i secondi per competere». Nei paesi sviluppati il capitolo talenti si sta però riposizionando. «Se fino a cinque anni fa era quasi esclusivamente un tema di recruiting, adesso sta diventando un tema di retention– aggiungeCrotti –perché i talenti per rimanere nello stesso posto di lavoro chiedono flessibilità sugli orari, sulla carriera e poi la possibilità di jobrotation, periodi sabbatici, percorsi internazionali e politiche di worklife balance».
L’equilibrio tra vita privata e lavoro è diventato un capitolo vitale in molti Paesi al punto che il 74% dei manager canadesi e il 70%di quelli americani ha intenzione di migliorare le iniziative aziendali di worklifebalance, un
tema molto sentito anche in America Latina, Africa, Europa.
Meno nei Paesi asiatici emergenti, dove è alta la richiesta dei dipendenti, ma da parte delle aziende per ora sembra esserci soltanto la volontà di affrontare l’argomento.
In Italia la sensibilità sta crescendo soprattutto perché è ormai chiaro che per fare fronte alla competizione internazionale con i paesi in via di sviluppo l’unica arma è la crescita della produttività e quindi, in molti casi,
delle ore lavorate. Le cronache mostrano, però, che a ogni tentativo delle imprese di contrattare con i sindacati l’aumento dell’uso degli impianti, e quindi delle ore o dei turni, si verificano forti attriti perché inevitabilmente
sorge il problema del bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa che non a caso i top manager indicano come una delle quattro sfide principali.
L’Italia, lungi dall’essere esonerata dalla guerra dei talenti, si vede costretta ad affiancarla a un tema di cui i manager iniziano ora a percepire l’importanza: la gestione del rischio demografico.
«Il baby boom avvenuto dopo la seconda guerra mondiale e il progressivo rallentamento delle nascite, in Italia è aggravato dal fatto che abbiamo una bassa percentuale di giovani che iniziano l’Università e arrivano alla laurea,
mentre ancora non si sentono gli effetti del miglioramento portato dalle lauree triennali», spiegaCrotti. Un quadro che difficilmente può essere migliorato pensando a un’immigrazione "alta" per la scarsa attrattività del nostro Paese, causata dalla lingua. Due gli aspetti che emergono nell’analisi del rischio demografico in Italia. Il primo è la gestione di una forza lavoro che ha un’età media sempre più elevata e che potenzialmente ha una probabilità più alta di avere un calo di produttività, accompagnato a maggiore assenza per malattia e minore capacità di evolversi e di cambiare seguendol’evoluzionetecnologica.
Il secondo è invece la perdita delle competenze e dell’esperienza, dovuto all’età media alta dei lavoratori e quindi ai futuri piani di esodo. Ma il gap tra le conseguenze che potrebbero verificarsi e i piani che stanno mettendo
in atto le imprese rivelano che «l’Italia non si sta attrezzando per affrontare la sfida», osserva Crotti. Diversamente dalla Germania o dalla Francia o dal Canada, per esempio, dove i top manager hanno una forte consapevolezza
dell’importanza del rischio demografico e quindi stanno mettendo in atto strategie per affrontarlo.
Per i top manager italiani al di là della capacità di fare evolvere il business, sarà necessaria un’evoluzione della cultura aziendale e quindi delle persone e del loro modo di lavorare. In un’azienda globale i dipendenti devono riuscire a interfacciarsi con lavoratori di altri paesi attraverso tutti i mezzi disponibili, dalla posta elettronica al telefono. Ovviamente in inglese. Questo significa adattarsi a un nuovo modo di lavorare in cui la comunicazione avviene su piani diversi rispetto a quelli tipici di un’azienda locale e implica la necessità di mettere in piedi un’organizzazione dove le differenze sono un vantaggio competitivo piuttosto che un ostacolo".

Cristina Casadei, Il manager apre il dossier demografia, Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2008

giovedì 8 maggio 2008

Fortune 100 Best Companies to Work For 2008: dubbi e riserve sull'indagine.

Fortune, ha pubblicato l’undicesima edizione della sua famosa classifica sulle cento migliori aziende nella quali lavorare negli USA nel 2008, realizzata in collaborazione con il Great Place to Work Institute.

Per il secondo anno consecutivo, la palma d’oro è andata a Google, il cui clima interno sembra essere imbattibile, non solo per il fatto che il 99 per cento dei dipendenti ha un piano di stock options che li galvanizza a seconda dell’andamento del titolo, ma anche per la cultura aziendale verso i collaboratori, la flessibilità, i benefit e le attenzioni dedicate ai bisogni personali dei propri collaboratori.

Tuttavia l’indagine in questione solleva più di una riserva. Non tanto sul meritatissimo primo posto di Google, azienda che tra l’altro ha quest’anno conquistato il primo posto anche nella classifica dei marchi in termini di valore (la Brand Top 100 di Millward Brown e Financial Times, che misura il valore economico dei principali marchi mondiali, dove il colosso di Mountain View ha sbaragliato tutti incrementando il valore del suo marchio da 66,4 miliardi di dollari del 2007 agli oltre 86 miliardi del 2008) quanto per alcune presenze e, soprattutto, per alcune assenze a dir poco inspiegabili.

Più che sorprendere per la presenza e il posizionamento di aziende della grande distribuzione alimentare come Wegmans Food Markets, al 3° posto nella classifica delle aziende più desiderate d’America e di Whole Foods Markets (16° posto), o di aziende del settore ospedaliero-medicale, come Methodist Hospital System, 10° posto nella classifica delle aziende più ambite nelle quali lavorare e di Ohio Health (28° posto), o il deludente risultato di due stelle della tecnologia, Microsoft e Yahoo!, rispettivamente all’86° e 87° posto, stupisce l’assenza di grandi aziende leader nei settori di riferimento con una consolidata esperienza nell'attrazione e gestione dei talenti.

E mi riferisco in particolare all’assenza, nell’elenco delle prime 100 aziende migliori nelle quali lavorare negli Stati Uniti, di colossi come General Electric, Coca-Cola, Ibm, Apple, Citi, HP, Oracle, Intel, Dell e Procter&Gamble per citare solo le prime che vengono in mente.

A ben guardare, le ragioni di questa inspiegabile situazione sono da ricercare nella tipologia di analisi effettuata o, meglio, sulla ristrettezza del campo di indagine che gettano ombre sulla reale utilità di un survey con queste caratteristiche.

Della classificazione delle prime cento aziende migliori nelle quali lavorare si è occupato, come abbiamo visto il Great Place to Work Institute che ha condotto un employer survey al quale hanno partecipato, in totale e per tutti gli Stati Uniti, 407 aziende sulle 1.500 invitate a partecipare.

Il primo limite dell’indagine in oggetto è proprio questo: l’estrema esiguità delle aziende analizzate. D’altra parte il survey in oggetto rileva solo i dati di quelle aziende che si iscrivono (pagando una quota) alla rilevazione.

Proprio per questo l’indagine non è in grado di restituire uno spaccato reale della realtà lavorativa nel Paese che si vuole analizzare. Che senso ha dire che l’azienda X è un bel posto in cui lavorare se sono in grado di compararne i risultati solo con una ristrettissima base di aziende e magari non con i miei competitor più diretti?

Poco più di 400 aziende per investigare il mercato lavorativo delle aziende degli Stati Uniti sembrano in effetti pochine per poter produrre uno studio che sia di un qualche interesse oggettivo, se non per l’autocompiacimento di chi, iscrivendosi, ottiene un buon risultato.

Rimango perplesso di fronte all'afermazione insita nei risultati del survey che gli americani preferiscano lavorare nel Sistema Ospedaliero Metodista piuttosto che in uno dei colossi delle tecnologie, della finanza o del largo consumo. Ne giova utilizzare a difesa dell’indagine condotta dal Great Place to Work Institute - che peraltro conduce un’analisi simile in Italia limitandosi a fornire un elenco con 35 aziende su un totale di non più di centocinquanta aziende analizzate – il fatto che si tratta di un’analisi di clima interno.

La sua utilità è e rimane fine a se stessa. Se non sono in grado di mettere in relazione i risultati della mia azienda con quelli del totale delle aziende che operano nel mio stesso contesto competitivo (vale a dire il mercato del lavoro) e con quelli delle aziende che operano nel mio stesso segmento di mercato (largo consumo, distribuzione, finance, tecnologia e via dicendo) qual è l’utilità dell’indagine per me che mi occupo in azienda di recruiting, risorse umane ed employer branding? In che modo simili dati possono essermi utili nel valutare come la mia azienda è percepita sul mercato del lavoro, quali sono gli asset che la contraddistinguono dai competitor, quali le specificità e quali gli ambiti di miglioramento?

Per correttezza, va detto che chi qui scrive è l’ideatore dell’indagine Best100, le aziende preferite dagli italiani realizzata ogni anno da PeopleValue per analizzare le preferenze lavorative di diplomati e laureati italiani. E, sempre per trasparenza e rispetto per chi legge, mi preme far osservare che nell’analizzare il tema dell’utilità o meno di un survey per il tema più generale che in questo contesto si affronta, ovvero l’employer branding, non esiste un conflitto di interessi in quanto la Best100 di PeopleValue non è assolutamente in concorrenza con quella realizzata dal Great Place to Work Institute. E' semplicemente diversa. Diversa è l’impostazione, diversi sono i fattori analizzati e diversi i risultati e le modalità di utilizzo.

La Best 100 di PeopleValue infatti nasce per analizzare l'immagine dell’azienda come employer presso i potenziali collaboratori dell’organizzazione e valutare il posizionamento del brand aziendale nel mercato del lavoro e rispetto a quello dei competitor più diretti.

La Best100 è in buona sostanza un indice che ogni anno restituisce il posizionamento del brand aziendale nei confronti del mercato del lavoro, tramite l’analisi dei giudizi di studenti, professional, diplomati e laureati italiani, dai 18 ai 54 anni, consentendo alle aziende di valutare l’impatto delle proprie politiche di employer branding verso i talenti.

L’immagine dell’azienda come employer presso i potenziali collaboratori dell’organizzazione diventa oggi importante al pari dell’immagine aziendale presso i consumatori finali. Il processo di recruitment oggi è una delle attività più complesse che possano esserci in azienda. Molte imprese hanno difficoltà a comunicare con gli studenti e con i giovani professional che vorrebbero assumere perché usano canali di comunicazione poco adatti o messaggi che non riescono a raggiungere con la dovuta efficacia i futuri collaboratori.

Il tema è particolarmente interessante: sappiamo quanto sia difficile assecondare l’esigenza di innovazione, quali problemi pone la necessità di gestire e guidare l’impresa verso il cambiamento e quanto importante sia il ruolo delle risorse umane in tutto questo, per la necessità di trattenere, attrarre e motivare i migliori talenti.

Come è mutata nel corso dell’ultimo anno la percezione delle aziende da parte del mondo dei lavoratori? Quali sono le aziende preferite agli occhi degli studenti o dei giovani manager? Quali le imprese che sono riuscite ad adeguarsi meglio al cambiamento in atto dando un’immagine positiva in un contesto economico caratterizzato dagli effetti della globalizzazione come quello attuale?

Sono queste ed altre le domande alle quali la Best100 di PeopleValue fornisce una risposta, consentendo a chi si occupa di risorse umane e di employer branding in azienda di avere un quadro chiaro e completo del mercato del lavoro visto dall’esterno, da quei diplomati e laureati, occupati e non, che possono essere i futuri collaboratori dell’azienda.

Consente, in particolare, di valutare come viene percepita l’azienda in generale sul mercato del lavoro, su uno specifico segmento di popolazione di interesse per l’azienda in relazione ad una serie di fattori quali età, stato occupazionale, tipologia di laurea e area di residenza.

Consente di mettere in relazione e comparare costruendo un benchmark di settore una specifica azienda con le altre che operano nello stesso segmento di mercato (largo consumo, industria, consulenza, information technology e via dicendo), valutando pundi di forza e di debolezza del brand aziendale.

Consente di capire quali sono i canali attraverso i quali comunicare con il proprio target di interesse e quali sono gli elementi su cui fare leva per ottenere un employer brand vincente (formazione, crescita professionale, attenzione alle esigenze personali, clima interno, benefit e via dicendo).

Consente di analizzare il risultato di una singola azienda su base nazionale o regionale, valutando come e in che modo uffici o localizzazioni di impianti produttivi possano influire sulla percezione dell’azienda come employer di riferimento.

Insomma, consente di avere tutti i parametri necessari per un audit dell’employer brand aziendale che è il punto di partenza di qualsiasi strategia di employer branding volta a migliorare e comunicare meglio l’azienda come buon posto in cui lavorare, tenendo presente che è un'indagine nella quale le aziende non debbono iscriversi e non debbono pagare per partecipare alle rilevazioni, perchè quello che viene rilevato è il mercato del lavoro nel suo complesso. Le aziende vengono spontaneamente citate dagli intervistati (circa 900 aziende citate dagli intervistati nell'indagine 2007) proprio perchè l'employer brand dell'azienda esiste nel mercato del lavoro, nella mente di studenti, professional, talenti e possibili collaboratori a prescindere dal fatto che l'azienda abbia o dedichi attenzione e risorse al tema dell'employer branding.

Per l’elenco completo dei migliori ambienti di lavoro negli Stati Uniti vai su Fortune 100 Best Companies to Work For 2008.

martedì 6 maggio 2008

Employer branding: nella competizione globale le risorse umane fanno la differenza.

In un'economia globalizzata che cambia volto molto rapidamente
il capitale umano insieme all’innovazione, rappresenta il principale fattore produttivo di un Paese.

Tuttavia l'innovazione parte dalle risorse umane: non esiste tecnologia che non abbia bisogno di un supporto fatto di motivazione, impegno, capacità e volontà delle persone. Nessuna tecnologia può sviluppare competitività quanto motivazione, preparazione e volontà di ottenere risultati. E queste doti risiedono unicamente nelle risorse umane.

La capacità di attrarre, assumere e trattenere le persone chiave è, oggi, uno degli aspetti maggiormente importanti del business aziendale.


Ne parla, in un articolo molto interessante pubblicato sul Corriere Economia di lunedì 21 aprile 2008, “Se Ibm vale di più di Wal-Mart il merito è di chi ci lavora” che vi segnalo, Arnaldo Camuffo, docente di Management presso l’Università Bocconi:

"Imprese come General Electric, Ibm e Procter&Gamble derivano circa il 70 per cento del loro valore di mercato da asset intangibili e buona parte di questo valore è costituita dal capitale umano.

L’indagine annuale di Fortune sulle Most Admired Companies mostra che le imprese leader nelle rispettive industrie raggiungono performance finanziarie, competitive, sociali e di innovazione più elevate grazie alla qualità del management e dei sistemi di gestione delle risorse umane.

Nella competizione globale, sono le scelte sul capitale umano a fare la differenza e anche se la globalizzazione tende a elevare e omogeneizzare gli standard di prestazione, ciò non implica la convergenza e l’isomorfismo dei modelli di gestione delle risorse umane.

Anzi è proprio mnella ricerca dell’innovazione nel campo del people management che le imprese possono creare differenziali competitivi. Nel settore della grande distribuzione, imprese come Wal-Mart, Costco e Tesco, adottano politiche di gestione delle risorse umane assai diverse. Wal-Mart , tutta centrata sulla riduzione dei costi retributivi e sulla sostituibilità del personale, Cotsco basata sulla riduzione del turnover, la fidelizzazione del personale e retribuzioni legate a skill e produttività.

Analogamente anche in settori maturi e labour intensive spostare sistematicamente le fonti di fornitura alla ricerca del costo del lavoro orario più basso non garantisce vantaggi competitivi sostenibili. Luxottica, leader mondiale nell’eyewear, continua a realizzare una quota rilevante dei propri volumi produttivi in Italia e affianca alle strutture produttive italiane operations in Cina interamente possedute e gestite secondo standard italiani.

Decisioni basate sul costo orario del lavoro senza tener conto della professionalità, della produttività totale dei fattori, dei costi organizzativi, possono essere fuorvianti, soprattutto per prodotti posizionati sull’high end del mercato e per quelli il cui tasso di innovazione e i tempi di risposta del mercato sono brevi.

Certo, la globalizzazione della competizione e dei mercati pone una pressione spietata sui risultati, soprattutto di breve periodo. Gli annunci di riduzioni salariali e di organico, così come quelli di delocalizzazioni produttive, fanno in genere volare i corsi dei titoli azionari delle società quotate, confermando che i mercati vedono spesso ancora le risorse umane come un costo e come un mero elemento del conto economico. E’ una concezione in contraddizione con il numero crescente di imprese che invece percepiscono le persone come una componente del capitale aziendale, da proteggere, da valorizzare e sulle quali investire.

In questo senso ricerche recenti mostrano che, almeno per le imprese multinazionali, le attività di formazione e sviluppo diventano sempre più importanti e strategiche. Evidenza ne è il proliferare delle cosidette corporate university con sedi ormai dislocate ovunque nel mondo e l’attestarsi di budget formativi anche nei periodi di rallentamento dell’economia, sistematicamente oltre il 2 per cento della massa salariale aziendale.

Queste contraddizioni che la globalizzazione esaspera, trovano riscontro anche in termini di comunicazione finanziaria. Un recente studio sul campione Fortune Most Admired Companies mostra che un terzo delle aziende del campione dedica pochissima attenzione al reporting sul capitale umano, mentre le imprese migliori, come ad esempio l’Intel, Ups, Well Fargo e Nokia, comunicano in modo trasparente, veritiero e completo in tema di capitale umano, correlando, attraverso metriche accurate le politiche di gestione delle risorse umane al valore prodotto.
Gestire le risorse umane nel contesto globale è un processo reso complesso dalle differenze interculturali derivanti dal fatto di operare in Paesi diversi, diversi assetti istituzionali e contrattuali in cui è necessario operare in modalità diverse in funzione delle singole specificità locali.

Per affrontare questa necessità, le imprese necessitano di leader capaci di guidare e innovare, e devono assicurarsi, senza fidarsi troppo del mercato come meccanismo allocativo, di alimentare una leadership pipeline interna adeguata alle sfide che intendono affrontare. Dati recenti, pubblicati su Harward Business Review mostrano che non solo le imprese che sono leader machine sono anche profit machine, ottenendo risultati superiori alle medi di settore, ma che alcune di queste imprese sono delle leadership brand, le scuole manageriali di settore, nel senso che forniscono manager leader alle altre aziende.

Di qui la necessità di concentrare gli sforzi sull’identificazione dei tratti di leadership necessari a condurre le imprese in questi contesti globali, costruendo esperienze organizzative, strumenti di valutazione, piani di successione manageriale e programmi finalizzati allo sviluppo della leadership che siano in grado di selezionare e sviluppare leader globali. Ma in questo campo le imprese non sono in grado di fare tutto. Senza la collaborazione delle altre istituzioni, a livello locale, nazionale e internazionale, questioni come la sicurezza e la salute sul lavoro, la tutela delle diversità, la produzione della conoscenza e della competenza sono difficili da affrontare. Serve una nuova stagione di alleanze con le istituzioni di ricerca e formative e nuove relazioni con gli altri attori sul mercato del lavoro".


Arnaldo Camuffo, “Se Ibm vale di più di Wal-Mart il merito è di chi ci lavora”, Corriere Economia, lunedì 21 aprile 2008.