giovedì 25 ottobre 2007

I talenti vale la pena scoprirli giovani.

Vi segnalo un interessante articolo pubblicato su Il Corriere della Sera del 19 ottobre 2007 da Severino Salvemini, docente di organizzazione aziendale alla Bocconi, che riprende il tema dei talenti dopo l'intervento di Pier Luigi Celli sullo stesso tema. Mentre Celli definisce quello del talento un mito da sfatare al più presto Salvemini ne esalta invece il valore intangibile attraverso una interessante e originale analisi della psicologia del talento.

Il gioco dei talenti, vale sempre la pena scoprirli di Severino Salvemini.
"I talenti, a prescindere dall' età e dall' anzianità. Purosangue come Ribot o Varenne che devono essere lasciati a briglie lunghe, coccolati con modalità personalizzate, perché solo così possono produrre grandi prestazioni. E' l' eccellenza dei pochi contro la normalità dei molti. Ed è scontato che l' insieme aziendale, il ventre più conformista e normalizzato, soffra questa nobilitazione e voglia spuntarne gli eccessi. Esattamente come alcuni anni fa la massa guardava con sospetto e diffidenza gli alti potenziali, aspettando solo qualche loro inciampo di "malagestione" per sterilizzare la qualifica di fermenti attivi e per includerli nella più rassicurante maggioranza silenziosa. Primedonne difficili da tollerare, i talenti si annoiano in fretta. Sono nomadi dentro: quando hanno l' impressione di aver raccolto tutto ciò che c' era da imparare passano altrove, dannati da coloro che rimangono a processare la banale routine. E ne sanno qualcosa i capi del personale che si irritano per non poter applicare le politiche standardizzate di gestione delle risorse umane. Pretendono ingaggi da favola e remunerazioni correlate al riconoscimento oggettivo del valore del loro contributo. Infedeli al sistema aziendale, sono imprenditori di loro stessi, credono in una carriera soggettiva (autodiretta e non pianificata dall' organizzazione) e scommettono sulle proprie relazioni nella comunità professionale. Per la notorietà che viene offerta loro dai mezzi di comunicazione, si ritrovano sovente a ricoprire posizioni di vedette. Lo sfruttamento economico di tale notorietà, non diversamente dallo star system che pensiamo operi solo nel cinema o nell' entertainment, condiziona ciò che possiamo chiamare l' economia della celebrità: 1) essi sono spesso eletti a rango di persone da emulare; 2) la capitalizzazione della loro fama è soggetta a fenomeni di autorafforzamento, essendo spesso in grado di amplificare il proprio score e di filtrare invece i risultati negativi controproducenti; 3) essi selezionano intelligentemente le occasioni per apparire in modo calibrato agli occhi dell' opinione pubblica e della tribù specialistica di riferimento. Maggiore è la preveggenza nell' assumere giovani talenti non ancora esplosi nello star system e maggiore sarà il valore intangibile che l' impresa finirà per incorporare dalla crescita della risorsa umana. Se invece l' inclusione organizzativa sarà spot, recuperando il professionista da un mercato che già lo ha ampiamente accreditato, il meccanismo sarà molto costoso poiché la stella manageriale verrà strappata ad altre istituzioni a colpi di alte offerte di denaro, innalzando il rischio che poi tale stella non riesca a ripagare l' investimento fatto (i nostri calciatori o artisti contemporanei docent). Chi dice che tutto ciò mal si concilia con il valore dell' equità può avere anche ragione. Ma il talento segue il proprio percorso biologico di eccezione e pretende di essere ricompensato e gestito con modalità significativamente differenziate rispetto al resto delle persone. Il talento ha un giudizio critico dell' uguaglianza come valore sociale: contrariamente al manager solidale che dà importanza a ciò che gli uomini hanno in comune, il manager di talento privilegia ciò che li distingue. Un risultato mostruoso dell' economia moderna? Una deriva egoistica frutto della esasperata battaglia contemporanea per il protagonismo e per la reputazione? Macché! Già nel famoso "Ricchezza delle nazioni" di 150 anni fa, Adam Smith così giustificava la distinzione organizzativa come modalità di apprezzamento del rischio: «nella lotteria perfettamente equa, coloro che estraggono il biglietto vincente devono guadagnare tutto ciò che perdono coloro che estraggono i biglietti perdenti». La possibilità di acquisire la celebrità è dunque il premio per coloro che si distinguono. Tutti poi possono conservare segretamente la fiducia nella buona stella, indipendentemente dai propri talenti. Basta non aspettarsi poi di essere eletto manager dell' anno."
(pubblicato su Il Corriere della Sera del 19 ottobre 2007).

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