martedì 9 ottobre 2007

La questione dei talenti tra mito e realtà.

Prendo spunto da un interessante contributo di Pier Luigi Celli pubblicato su Corriere della Sera del 5 ottobre 2007 a pagina 42 per un’ulteriore riflessione sulla questione dei talenti, centrale per chi si occupa di employer branding in quanto attività strettamente commisurata a guadagnare in favore della propria azienda l’attenzione dei collaboratori - attuali (in ottica di retention) o potenziali (in ottica di attraction) – di maggior valore.

L’articolo di Celli - "Quello del talento è un mito che va sfatato al più presto" - parte dall’osservazione di come la competizione sui talenti sia più un fenomeno di moda che interessa in questa fase le organizzazioni aziendali e che troppo spesso l’attenzione verso questo tema si riduca ad una pura e semplice esibizione mediatica di un tema di forte impatto emotivo. «Avere talento» o «essere un talento» secondo Celli dislocano il termine in campi referenziali significativamente diversi sicchè proprio la sostanziale ambiguità semantica rischia di trasformarsi in una trappola linguistica in grado di condurre ad un fallimento pratico prima ancora che del termine e della politica ad esso associata sia stato definito l’ambito di applicazione pratico.

“Di chi si parla, in impresa, quando si insiste su una politica dei talenti come strumento (e strategia) di individuazione e di promozione dei migliori: di chi lo è in astratto” continua Celli “quasi come forma consustanziale (e nativa) della qualità che si è fatta persona, quella persona, o di chi ha particolari caratteristiche in particolari campi e per particolari compiti? E, ancora, che rapporto finirà per esserci tra una popolazione selezionata per eccellere e la maggioranza destinata alla normalità, se non si chiarisce lungo quali assi si disloca il rapporto tra eccellenza e normalità, nella presunzione che si possa trovare un punto di equilibrio mobile (instabile?), una sorta di ottimo provvisorio, che forse massimizza i vantaggi organizzativi?”

Queste riflessioni nascono dall’osservazione che la parola talento è di per sé un termine che rischia di essere ambiguo e fuorviante nel momento in cui si porta dietro un riferimento come lo ha definito Celli “a dati cognitivi, a una preparazione professionale di tipo specialistico, a competenze in grado di essere misurate e quantificate «per differenza» rispetto a certi standard” domandandosi poi se il talento aziendalmente rilevante sia quello che esprime in astratto la migliore performance curriculare?

Vale la pena allora soffermarsi su cosa si intenda e debba intendersi per talento prima di percorrere una strada che rischia di portarci fuori tema.

Il talento, nella accezione che in questo ambito lo intendiamo, non ha nulla a che vedere con curriculum, votazioni o con l’eccellente conoscenza di una materia. L’aver ottenuto un punteggio di 100 (o con 110 per chi, come chi scrive, avendo qualche anno sulle spalle, si ritrova meglio a ragionare con il vecchio ordinamento) non necessariamente significa essere un talento, sia pure potenziale, così come non lo è una persona che esprime fortissime conoscenze informatiche ad esempio magari tali da essere considerato nel suo campo un guru.

Il talento ha più a che vedere con il saper essere della persona nei confronti degli altri, quindi con le sue capacità di relazione, di interazione e di comunicazione. Dal punto di vista di chi scrive i talenti sono giovani con un forte potenziale e con prestazioni superiori alla media, in grado di lavorare assumendosi responsabilità sempre maggiori, veloci nell’apprendere e in grado di trasferire valore alla struttura, ma anche manager con più anni di esperienza, professional di indiscussa competenza, che eccellono nell’operatività e con un alto grado di affidabilità. A condizione che oltre a garantire elevate prestazioni nel loro settore lavorativo, siano persone in grado di adattarsi al cambiamento, sempre in agguato nella moderna economia, che sappiano fare squadra, che trasmettono entusiasmo al gruppo all’interno del quale lavorano e siano in grado di motivare i propri collaboratori.

Lo riconosce lo stesso Celli allorquando afferma che le competenze richieste oggi sono “sempre più articolate e flessibili di quelle portate in dote dagli studi o da una monoesposizione funzionale , e dove quindi il «talento» andrebbe misurato anche su parametri «spuri», di tipo sociale, relazionale, emotivo e comportamentale”.

Tuttavia, proprio per queste complessità e per le variabili che intervengono non solo nell’esatta definizione di talento, ma anche nella pratica della selezione degli stessi o dei presunti tali e dell’efficacia dei programmi di sviluppo a loro dedicati, l’opinione di Celli sulla possibilità di percorrere questa strada all’interno delle aziende è alquanto negativa anche per le difficoltà che una politica dei talenti può introdurre nell’equilibrio gestionale dell’organizzazione con il rischio di creare delle entità estranee al tessuto aziendale e perciò da questo respinte.


Ma se la parabola dei “talenti” è in declino così come a suo tempo lo è stata quella dei “potenziali” questo destino negativo è da rintracciarsi nel modo in cui si è affrontato e si continua ad affrontare il tema o piuttosto come conclude Celli “nella vacuità del concetto in sé e nella scarsa utilità del suo impiego asettico nei contesti aziendali”?

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sono d'accordo con il commento di Celli sulla questione dei talenti.
E se vogliamo il talento non è mai stato affrontato dal punto di vista semantico, ma solo come nuova etichetta che una volta si chiamava potenziale.
Il primo significato etimologico di talento deriva dal greco talanton che significava bilancia, che io interpreto anche come equilibrio. E se il talento non fosse altro che una persona equilibrata, in equilibrio con se stesso e con gli altri, in equilibrio tra ciò che vuol essere e ciò che è, tra le sue passioni e le sue attività?
In questo senso non varrebbero più le distinzioni tra età, curriculum e capacità cognitive.
Altra considerazione: il talento in azienda è assoluto o relativo? Ho conosciuto talenti che erano falegnami, meccanici, musicisti o macellai.
Forse il talento è colui che riesce, attraverso la congiunzione tra vocazione, passione e attività in essere, a trasformare un mestiere in arte.

Claudio Brescianini