giovedì 18 settembre 2008

Lavoro: i paradossi del calo della disoccupazione.

In tema di lavoro, vi segnalo un articolo di Tito Boeri apparso su Affari&Finanza di La Repubblica del 15 settembre 2008.

“Negli ultimi dieci anni in Europa la disoccupazione è scesa notevolmente, anche quella di lunga durata. Eppure, i sondaggi evidenziano un crescente malcontento per le condizioni di lavoro. Perché? Le riforme degli anni Novanta hanno creato un mercato del lavoro a due velocità, che produce pesanti asimmetrie nelle carriere, con tutti i rischi concentrati sulle spalle degli assunti con contratti atipici. La risposta non è un ritorno al passato, ma una decentralizzazione maggiore delle negoziazioni salariali, legando gli stipendi alla produttività.
In Europa si è realizzato un vecchio sogno, che però si sta trasformando sempre più in un incubo. Il sogno era descritto nel Trattato di Roma del 25 marzo 1957: “La Comunità ha il compito di promuovere nell'insieme della Comunità, (…), uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale (…), un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”.


IL SOGNO EUROPEO REALIZZATO...
Nell'ultimo decennio in Europa la disoccupazione è scesa a un livello mai visto da venticinque anni a questa parte. Oggi, nell’Europa dei 15, vi sono quasi 4 milioni di disoccupati in meno che nel 1996. Anche la disoccupazione di lunga durata è quasi dimezzata: negli anni Novanta, la metà di coloro che cercavano lavoro restava disoccupata per oltre un anno, ora non accade più.Non è l’effetto collaterale di una mancata partecipazione al mercato del lavoro, ma rispecchia l’aumento del tasso medio di occupazione nei 15 paesi membri, cresciuto del 6 per cento negli ultimi dieci anni. È, del resto, l’unico settore in cui vengono rispettati gli ambiziosi obiettivi di Lisbona. È drasticamente diminuito anche il numero di coloro che sono eternamente in bilico tra occupazione e disoccupazione e che, stufi e frustrati, smettono addirittura di cercare un lavoro, convinti che per loro non esistano possibilità.Sono proprio quei paesi in cui inizialmente si registrava un tasso di disoccupazione più elevato, che hanno ottenuto il calo più sensibile.Indagini cross-section sui tassi di disoccupazione dell’Europa dei 15 (Nuts II) mostrano che la dispersione dei tassi di disoccupazione tra settori nelle regioni europee è fortemente diminuita come risultato di una riduzione della varianza sia tra paesi che all'interno dei paesi.E questo è senz’altro un progresso sul cammino di quella coesione sociale, auspicata dai governi sin dal trattato di Roma del 1957. Le condizioni del mercato del lavoro delle regioni europee sono, del resto, sempre meno differenziate.

…SI TRASFORMA IN UN INCUBO
I governi europei non hanno tuttavia capitalizzato i successi ottenuti sul mercato del lavoro. Proprio quei governi e quelle coalizioni che hanno reso possibile la creazione di milioni di posti di lavoro non sono stati riconfermati dagli elettori. Il governo Berlusconi del 2001-2006 ha creato 1,3 milioni di posti di lavoro in cinque anni, ben più di quanti promessi in campagna elettorale. Il che non gli ha tuttavia evitato il crollo di popolarità e la conseguente sconfitta alle elezioni del 2006. Il governo Prodi del 2006-2008 ha avuto una vita molto breve, nonostante abbia creato in meno di due anni 400mila nuovi posti di lavoro. José Maria Aznar, nel 2004 ha perso le elezioni spagnole nonostante avesse dimezzato la disoccupazione e creato quasi 5 milioni di posti di lavoro durante il suo mandato.I sondaggi evidenziano anzi un crescente malcontento per le condizioni di lavoro, proprio in quei paesi che hanno registrato la riduzione più significativa dei tassi di disoccupazione.

PERCHÉ?
Perché il sogno europeo si è trasformato in un incubo? La spiegazione più semplice potrebbe essere che il calo della disoccupazione sia dovuto a un fenomeno demografico, e che non dipenda dai cambiamenti dei livelli di occupazione di determinati gruppi socio-economici. In Europa la popolazione invecchia e sono soprattutto i giovani, più dei vecchi, a sperimentare il dramma della disoccupazione. Un’Europa che invecchia potrebbe, di conseguenza, evidenziare un basso tasso di disoccupazione semplicemente perché è cambiata l’età della sua forza lavoro. Tuttavia, questa semplice spiegazione non è sufficiente: può, al massimo, spiegare una minima parte, forse un decimo, del calo della disoccupazione, che si è verificato in tutte le fasce d’età. Neanche l’altro importante fenomeno demografico avvenuto in Europa nell’ultimo decennio, l’immigrazione su larga scala, riesce a spiegare esaurientemente l’enorme diminuzione del tasso di disoccupazione. Caso mai dovrebbe essere il contrario: un maggior numero di immigrati avrebbe dovuto incrementare il numero dei disoccupati. In effetti, il tasso di disoccupazione è più elevato tra gli immigrati che tra i nativi dell’Europa dei 15.Per capire cosa è avvenuto in Europa e perché, paradossalmente, i suoi cittadini sono scontenti, nonostante la sensibile riduzione della disoccupazione, dobbiamo andare al di là dei dati di stock del mercato del lavoro e osservarne i flussi.La prima cosa da notare è che la disoccupazione è diminuita nonostante l’aumento dei flussi della disoccupazione in entrata (flussi calcolati rispetto alla popolazione a rischio, cioè popolazione in età di lavoro meno i disoccupati). In altri termini, è stato principalmente l’aumento dei flussi della disoccupazione in uscita che ha determinato il calo della disoccupazione in Europa. In secondo luogo, si può notare un aumento di mobilità della forza lavoro tra gli Stati europei, che risulta evidente, dividendo gli indici di mobilità per le matrici di transizione, che mappano i flussi attraverso i mercati del lavoro dei principali paesi. Degno di nota il fatto che l’incremento della mobilità è stato più forte nei paesi in cui il calo della disoccupazione è risultato più marcato.

SONO STATE LE RIFORME
La situazione del mercato del lavoro in Europa appare oggi ben diversa dalle condizioni sclerotiche dei primi anni Novanta. Nel 1994 il Jobs Study realizzato dall'Ocse, un autorevole rapporto commissionato dal G7, affermava: “Nella rigida Europa (…) l’elevata incidenza di disoccupazione di lunga durata è collegata con i bassi flussi della disoccupazione in entrata”.Perché è avvenuta quest’inversione di rotta, che ha trasformato un’Europa rigida in un’Europa mobile? Il fattore che ha determinato l’aumento dei flussi del mercato del lavoro sembra essere stato quello delle riforme della legislazione in tema di protezione del lavoro. Durante gli anni Novanta le riforme più importanti hanno ridotto il costo dei licenziamenti: mentre nel periodo 1986-90 vi erano state, nell’Europa dei 15, solo quattro riforme in materia, tra il 1996 e il 2000 ne sono state realizzate ben sedici. Gran parte di queste riforme sono state marginali: si sono limitate a ridurre la protezione del lavoro per i nuovi assunti, aumentando così il numero dei contratti a tempo determinato e introducendo nuove forme di contratti atipici, più flessibili. Ciò ha radicalmente trasformato le condizioni di ingresso nel mondo del lavoro. Nei paesi dove esistono norme severe, che regolamentano il licenziamento di lavoratori assunti a tempo indeterminato, gran parte delle nuove assunzioni viene fatta ricorrendo ai contratti atipici, molto flessibili. Per esempio, in Spagna, il passaggio dalla disoccupazione al lavoro di 9 persone su 10 avviene con contratti a tempo determinato. L’aumento dei flussi in uscita dalla disoccupazione è, in Europa, ampiamente collegata a queste nuove forme di assunzioni.Il guaio è che invece di essere solo un modo diverso per entrare nel mondo del lavoro, questi contratti sfociano facilmente in un binario morto: la probabilità che, nel giro di un anno, il contratto a tempo determinato si trasformi in un contratto a tempo indeterminato è invero molto bassa, nell’ordine di 1su 20 o 1 su 10. In altri termini, queste riforme hanno creato un mercato del lavoro a due velocità, che produce pesanti asimmetrie nelle carriere, con tutti i rischi concentrati sulle spalle degli assunti con contratti atipici. Basandosi sulle matrici di transizione si può prevedere che, in futuro, fino a un terzo delle assunzioni avverranno con contratti flessibili.

IL NUOVO MERCATO DEL LAVORO
Il malcontento degli europei verso le nuove regole del mercato del lavoro dipende strettamente da questa nuova, apparentemente meno favorevole, combinazione rischi-benefici. Il mercato del lavoro sta diventando più rischioso, il che significa perdita di benessere per i lavoratori che sopportano tale rischio, a meno che quest’ultimo non venga compensato da rilevanti benefici. Ovunque in Europa si registrano crescenti pressioni, affinché lo Stato si impegni seriamente a difendere i salari. Pressioni che possono anche essere interpretate come richieste di compensazione, perché nessuno può dire di sentirsi completamente protetto. Persino gli insider ormai temono di poter perdere il loro lavoro.Vi sono forti pressioni affinché si torni indietro. Ma dopo aver ridotto la partecipazione dello Stato nella difesa del lavoro, sarebbe un errore permettere ai governi di intervenire nelle negoziazioni salariali. Ciò che ha fatto recentemente la Germania, vale a dire imporre salari minimi, specifici per i diversi settori, espone i governi al rischio di pressioni sempre più insistenti da parte delle lobby nazionali e al pericolo di un’escalation di sfide concorrenziali tra le aziende. E non esistono ragioni di sorta per reintrodurre una politica dei redditi, sia pur in forma blanda, come quella adottata da molti paesi europei in vista dell'ingresso nell’Unione monetaria. Una politica centralizzata dei redditi non è, in effetti, uno strumento appropriato nell’ambito dell’Unione Europea, perché gli choc macroeconomici sono, per loro natura, più regionali o settoriali. È il motivo per cui il sistema di relazioni industriali, basato su organizzazioni sindacali nazionali, non è adatto per affrontare la nuova domanda microeconomica di flessibilità.La miglior risposta che si può offrire alle paradossali preoccupazioni dimostrate dagli europei nei confronti del calo della disoccupazione è quella di decentralizzare ancora di più le negoziazioni salariali, legando gli stipendi alla produttività. Certo, aumenta il rischio, perché il passaggio da un impiego all’altro comporta, in genere, una forte perdita salariale, mentre i contratti collettivi nazionali prevedono scatti automatici. Cambiare lavoro o restare per qualche tempo disoccupati significa, in quest’ottica, non riuscire a migliorare il proprio reddito. Si possono, però, proporre buone combinazioni rischi-benefici, collegando strettamente i salari alla produttività settoriale. Se il cambio di lavoro comportasse l’ottenimento di buoni risultati, ecco che il passaggio da un impiego all’altro aumenterebbe il reddito invece di diminuirlo.Allo stesso tempo, è assolutamente necessario far qualcosa per neutralizzare il crescente dualismo tra lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato, presente in quasi tutti i mercati del lavoro europei. Costa molto caro alla società perché disincentiva dall’accumulare capitale umano: non si investe, infatti, nella formazione dei lavoratori con contratto a termine, altrettanto quanto in quella dei dipendenti. Sarebbe auspicabile mettere in atto una politica che offrisse reali prospettive di carriera ai giovani, riformando le leggi di protezione del lavoro. Oggi, quando scade un contratto a termine, non esistono prospettive di lungo respiro. I governi dovrebbero promuovere una legislazione che preveda il graduale inserimento definitivo del giovane, eliminando così l’esistenza di un mercato del lavoro a due velocità. Sarebbe opportuno introdurre garanzie, sotto forma di indennità, che dovrebbero aumentare con l’età, qualora il lavoratore abbia prestato la sua opera con una certa continuità.

DESTARSI DALL’INCUBO
E infine, se gli europei sono scontenti, nonostante il calo della disoccupazione, ciò è dovuto anche al fatto che a maggior occupazione non corrisponde maggior produttività, ma anzi il contrario: più cresce l’occupazione, più cala la produttività. E ciò non permette ai lavoratori di guadagnare di più, nonostante i maggiori rischi cui sono esposti. L’Europa, infatti, accusa un forte ritardo nel cammino delle riforme del mercato del lavoro. I governi devono assolutamente resistere alle pressioni, sempre più insistenti, affinché si ritorni ai vecchi sistemi, che avrebbero effetti deleteri sull’occupazione; per aumentare occupazione e produttività bisogna abbandonare i vecchi schemi e fare esattamente il contrario. Ormai, l’Europa è in mezzo al guado e deve a tutti i costi raggiungere l’altra riva, introducendo sistemi che assicurino impieghi più stabili, ma decentralizzando le negoziazioni, per legarle sempre più alla produttività.”

Il lavoro è solo flessibile. Al sistema seve flexicurity” di Tito Boeri, Affari&Finanza de La Repubblica del 15 settembre 2008.

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