mercoledì 15 aprile 2009

Gli effetti della crisi: dal “Credit Cruch” al “People Crunch”.

L’economia mondiale aveva conosciuto, sino a due anni fa, una fase eccezionalmente prolungata di crescita sostenuta accompagnata da inflazione bassa e stabile in tutte le aree principali. Le previsioni di crescita apparivano, anche grazie agli elevati tassi di sviluppo delle economie dei grandi Paesi emergenti, ancora stabili e certe. Quella fiducia è stata gradualmente erosa dagli eventi succedutesi a partire dall’estate 2007 fino all’autunno dell’anno scorso ed è precipitata rapidissimamente negli ultimi mesi.

I rischi per l’economia reale fino all’estate scorsa solo paventati si sono materializzati. In tutti i principali Paesi l’attività economica è in forte diminuzione. La crisi di fiducia è la più grave dal dopoguerra e l’effetto credit crunch arriva all’economia reale. I consumi ristagnano e le banche hanno stretto la cinghia del credito alle imprese, come testimonia in questi giorni il grido d’allarme lanciato da Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. Di conseguenza le prime crepe si iniziano ad intravedere nel sistema delle aziende produttici e dei servizi.

Tutte le istituzioni internazionali stanno rivedendo al ribasso le stime di crescita e le parole recessione e deflazione sono sempre più usate dai commentatori economici. Sebbene il presidente della FED Bernanke si dica ottimista sulla possibilità di ripresa dell’economia mondiale, ha recentemente dichiarato di essere fiducioso che la ripresa potrà iniziare già all’inizio del prossimo anno, ovvero nel 2010, il problema vero è che la disoccupazione nel frattempo potrà salire fino al 10%. E che questo sia vero lo testimoniano anche le parole di Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea che in occasione di uno degli ultimi vertici europei dedicato ad una crisi che si sta profilando sempre più grave dichiara “le persone innanzitutto”, sottolineando come l’attenzione dei politici debba necessariamente concentrarsi sull’emergenza occupazione.

La Commissione stima infatti che la disoccupazione potrebbe arrivare già nel 2009 a superare la soglia del 10 per cento, con un aumento di 6 milioni di senza lavoro. Sono dati che non stupiscono se si leggono le ultime stime dell’Ocse secondo cui nel 2009 la recessione nella zona euro dovrebbe arrivare a meno 4,1 per cento, con l’Italia a -4,2 per cento che si colloca tra il – 3,3, per cento della Francia e il – 5,2 per cento della Germania. L’FMI dal canto suo dichiara che il peggio deve ancora venire e che la situazione economica internazionale è ancora molto critica. Basti pensare che il panorama delle stime di crescita a livello globale si fa sempre più fosco: è confermato che per quest’anno il Pil mondiale per la prima volta in sessant’anni, all’incirca dalla seconda guerra mondiale, si contrarrà tra lo 0,5 e l’1,5 per cento, mentre quello delle economie più avanzate si ridurrà tra il 3 e il 3,5 per cento, con il 4,1 per cento, come abbiamo visto, per l’eurozona e il – 5,2 per cento del Giappone, mentre per gli Usa il dato è – 2,6 per cento e anche la locomotiva cinese dovrebbe fermarsi ad un – 5 per cento.

In Italia la situazione appare ancora più complicata perché il Sistema Italia ha una struttura molto debole dovuta al fatto di essere caratterizzato da una diffusa presenza di mini e piccole imprese che rischiano di non reggere ad una ulteriore compressione dei margini, accompagnata da una domanda ancora molto incerta e da un aggravio dei costi finanziari legati alla mancanza di credito (perché le banche oltre a non concedere prestiti alle imprese non si prestano soldi l’un l’altra e di conseguenza i tassi rimangono alti). I prestiti erogati dal sistema bancario italiano ancora in vivace espanzione nella prima parte del 2008 hanno rallentato nel corso dell’anno e la decelerazione si è fatta più brusca negli ultimi mesi.

Nel frattempo il tasso di disoccupazione continua a crescere e nel quarto trimestre del 2008, secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istat, è salito al 7,1 per cento in crescita rispetto al 6,6 per cento dell’analogo periodo del 2007. Dopo 9 anni di interrotta diminuzione che proseguiva dal 1999 il numero dei disoccupati continua a crescere. Il tasso annuale di disoccupazione si assesta per tutto il 2008 al 6,7 per cento rispetto al 6,1 per cento dell’anno precedente.
Dati di questo genere spiegano senza ulteriori commenti alcuni numeri molto significativi relativi alle politiche di contenimento dei costi annunciate o in alcuni casi già adottate da alcune tra le maggiori aziende internazionali che, all’indomani dello scoppio della crisi finanziaria hanno annunciato maxi piani di riorganizzazione che si traducono per lo più nel taglio delle risorse umane: dal credit crunch al people crunch appunto.

Vediamo alcune di queste situazioni nel dettaglio, prima fra tutte la più grave quella del gruppo Telecom Italia dove ai 5 mila tagli già stabiliti dal nuovo piano industriale di Franco Bernabè ne sono stati annunciati altri 4 mila, per un totale di 9 mila dipendenti in meno entro il 2010, Eutelia ha annunciato la dismissione dell’intero comparto IT che occupa 1.600 addetti a livello nazionale, in Tiscali la forza lavoro è diminuita di 250 persone mentre sono 450 quelle interessate dal piano di alleggerimento di H3G.

Negli Stati Uniti hanno già superato quota 1,5 milioni. AT&T, 12 mila licenziamenti. JP Morgan, 9.200. Dupont 2.500 tagli, In Europa solo il settore finanziario negli ultimi mesi ha tagliato 150 mila posti (Citigroup 52 mila esuberi, Morgan Stanley 7 mila, Merril Lunch 5.700, Credit Suisse 5.600, Goldman Sachs 3.200, Royal Bank of Scotland 3.000), a cui si aggiungono gli oltre 30 mila dell’auto e le diverse migliaia di licenziamenti nell’industria siderurgica, nell’high tech, nelle telecomunicazioni e nel manifatturiero. Whirlpool 3.000, HP 24.000, Xerox 3.000, Nortel 3.000, Motorola 10.000, Nokia 1.800, Sony 20.000, Kodak 5.000 e perfino i colossi del web come Yahoo! e Google hanno iniziato a tagliare.

Per non parlare del settore dell’auto: alle miglialia di dipendenti in cassa integrazione alla Fiat ne corrispondono altri 200 mila dell’indotto perché per la prima volta sono fermi contemporaneamente auto, veicoli commerciali, camion, macchine agricole. E sempre per la prima volta la difficoltà non è di un solo produttore ma di tutto il mercato mondiale dell’auto: oltre alle ormai note vicende dei grandi dell’auto di Detroit (GM, Chrysler e Ford) in Europa hanno fatto ricorso alla cassa integrazione oltre al Lingotto, Seat, Opel, Mercedes e anche Bmw.

Una situazione che interessa tutti i settori aziendali. E se prima almeno nel comparto commerciale le figure che vi lavoravano erano abbastanza immuni da piani di riduzione del personale, oggi non è più così. Oggi si taglia anche in quel contesto. E per la prima volta negli ultimi venti anni si ata assistendo ad uno stravolgimento delle dinamiche decisionali soprattutto a livello di multinazionali, Se fino a ieri si lasciava alle filiali nazionali il compito di decidere quante e quali risorse dovevano essere soppresse in caso di piani di riorganizzazione, oggi gli headquarter hanno ripreso le redini e i tagli vengono decisi dall’alto. Un esempio emblematico è il centro di ricerche di Motorola di Torino: 400 persone a casa.

In questo contesto il problema, per il tema che qui ci interessa maggiormente, è duplice. Da un lato vuol dire che le aziende impegnate a ridurre i costi investiranno meno in innovazione, dall’altro che le politiche verso le risorse umane ne risentiranno maggiormente, non solo per i tagli che abbiamo già visto, ma anche per una invevitabile minore propensione ad investire sulle risorse umane. Da questo punto di vista uno dei primi aspetti a ventire tagliata è la formazione, un settore dove le imprese già tradizionalmente investono poco e dove sicuramente non andranno ad investire nell’attuale contesto economico.

Difficile, molto difficile, in questo contesto e con questo tipo di approccio, parlare di politiche di employer branding (il che peraltro spiega anche il mio prolungatosilenzio negli ultimi mesi). Ma siamo proprio sicuri che in periodi di recessione l’employer branding non sia un elemento che debba essere al centro delle politiche aziendali verso le risorse umane?

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