martedì 22 aprile 2008

Engagement e produttività:l'importanza della flessibilità organizzativa.

Il persistente dibattito sulla precarietà del lavoro ci porta a rappresentare la flessibilità in un'unica direzione, quella delle tipologie contrattuali. Eppure la vera flessibilità di cui le imprese hanno bisogno non è tanto, e solo, quella contrattuale. Forse ancora più importante è la flessibilità organizzativa che pure è compressa da una cultura giuridica formalistica che poco e male valorizza la delicata funzione della direzione del personale.

Basta una lettura superficiale dei principali contratti per avere una inequivocabile conferma di come alcuni istituti centrali rispetto ai temi della innovazione organizzativa e della produttività (orari di lavoro, regime degli appalti e processi di esternalizzazione, mansioni e classificazione dei lavoratori, profili formativi, ecc.) siano solo marginalmente oggetto di intese collettive volte a governare il cambiamento in atto nei modi di lavorare e produrre.

Eclatante è il caso dell'inquadramento dei lavoratori fermo a un modello d'impresa, quella fordista-taylorista, che non c'è più, o che comunque si è profondamente modificato.La contrattazione collettiva prevede un corposo elenco di mansioni alle quali vengono attribuiti gli inquadramenti del personale con i minimi. I livelli sono organizzati secondo una progressione di carriera verticale, che valorizza l'acquisizione della maggiore specializzazione nella singola mansione. Un sistema che è stato positivo, perché ha determinato una certa omogeneità di trattamento economico, nonché la sicurezza di un minimo. In un contesto produttivo rigido questo meccanismo è risultato utile e solo in parte ha bilanciato un non sempre positivo appiattimento dei salari.

Tuttavia oggi i modelli produttivi sono sottoposti a mutevoli pressioni competitive. L'organizzazione delle imprese tende ad essere "piatta e snella", con minori possibilità di crescita verticale, ma con notevoli opportunità di espansione orizzontale delle competenze. Tutto ciò induce l'uso di più generali strumenti cognitivi quali la flessibilità mentale a imparare e svolgere compiti nuovi, la predisposizione a interagire con i colleghi per raggiungere un certo risultato comune, la capacità di modificare e integrare la propria prestazione all'interno di un programma di lavoro più ampio.

Il collaboratore dell'azienda moderno, operaio o impiegato che sia poco importa, è chiamato non solo ad attingere staticamente alle conoscenze specifiche della mansione, ma ad offrire anche un certo grado di flessibilità operativa sia nell'organizzazione dei compiti che nell'utilizzo delle tecnologie, anche se che non sempre sono direttamente connesse alla mansione naturale. Il datore di lavoro deve poter incentivare e valorizzare tali qualità per dotarsi di una organizzazione del lavoro contrassegnata da dinamismo e competenze trasversali.

La nuova organizzazione del lavoro mal si concilia con l'attuale sistema di inquadramento e qualifica professionale, nato in un contesto economico e sociale oramai consegnato alla storia. Il modello retributivo unico e rigido legato alla singola mansione andrebbe pertanto scomposto in più elementi flessibili che permettano di compensare ciò che il lavoratore fa, ma anche e soprattutto di valorizzare ciò che il lavoratore "sa fare" (pay for competence).

Vale a dire quelle competenze ulteriori che costituiscono il corollario della mansione principale, ma che rappresentano per l'impresa i tratti della maggiore professionalità e distinzione dalla concorrenza. In questa prospettiva si potrebbe ipotizzare una prima componente fissa della retribuzione, uguale per tutti, indicizzata. Una sorta di “salario sociale”, il cui importo però non corrisponderà agli attuali minimi dei contratti collettivi, ma sarà più simile all'importo della pensione sociale.

A ciò dovrebbe seguire un secondo elemento chiamato "salario o stipendio di ruolo", ancorato al ruolo professionale ricoperto, senza tuttavia coincidere con le mansioni elencate negli attuali contratti collettivi, e che potrebbe invece fare riferimento ai livelli di professionalità ritenuti validi nel contesto aziendale (dal ruolo "generico", a quello puramente "tecnico" a quello "gestionale").

Altri elementi potrebbero eventualmente essere poi un "superminimo professionale" e un "superminimo distintivo", che rappresentano il compenso per le maggiori qualità dimostrate nel corso dell'attività lavorativa. Ad esempio la capacità di svolgere più ruoli o mansioni. Oppure il possesso di competenze speciali ad alto valore aggiunto.

Questi due ultimi elementi non saranno obbligatori, ma negoziabili in funzione di indicatori e parametri di produttività che è il tema vero del nostro sistema di relazioni industriali.Un appropriato sistema fiscale e contributivo, del tipo di quello delineato nel recente protocollo sul welfare per la contrattazione di secondo livello, dovrebbe incentivare il lavoratore a puntare a tali compensi, portandolo a migliorare il proprio contributo, e allo stesso tempo rendere conveniente alla azienda erogare tali riconoscimenti.

1 commento:

giancarlo ha detto...

Sto lavorando ad una ricerca sulla visione delle risorse umane in termine di valorizazione delle stesse, condivido totalmente lo scenario e le soluzioni descritte nel vs articolo, che ho trovato veramente d'aiuto per la mia ricerca

Gian carlo Sunda