lunedì 12 maggio 2008

Risorse umane: gestione dei talenti e questione demografica.

Il dibattito sulla questione demografica nella gestione dei talenti e più in generale nelle politiche di gestione delle risorse umane negli Stati Uniti, così come in Europa e in Italia in particolare, inizia a diventare di sempre maggiore attualità per l'incremento dell'età media della popolazione attiva.

Sul tema volevo segnalare un'interessante articolo di Cristina casadei, Il manager apre il dossier demografia, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 7 maggio 2008:


"Sullo sfondo dell’atlante concuiBoston Consulting Group ha disegnato le strategie dei top manager per creare valore dalle risorseumanedi qui al 2015 c’è la gestione dei talenti. «Non è una novità, se ne parla da molti anni – ammette Elisa Crotti, consulente del gruppo americano – ma la mancanza di talenti rimane la principale barriera per la crescita e la competitività delle aziende». Così rientra tra le prime 4 sfide in 9 dei 17 Paesi dove lavorano gli executive delle 4.700 grandi imprese,contattate dalla società per elaborare lo studio intitolato "Creating people advantage".
La sfida per trovare il vantaggio competitivo attraverso la gestione delle persone riguarderà tutti i top manager e non soltanto il direttore delle risorse umane. In passato figura marginale - perché diversamente dai manager che gestiscono "i numeri" il suo lavoro è sempre stato considerato difficilmente quantificabile - adesso anche per il capo del personale vengono definiti degli standard in modo da poterne valutare i risultati. In 12 dei 17 Paesi tra le prime quattro sfide c’è quella di farne un partner strategico; la pressione per arrivare a questo risultato è più forte in Cina,
Cile e Argentina dove i dipartimenti delle risorse umane sono marginali, poco strutturati o in molti casi mancano. In Italia «i top si aspettano da questo manager un supporto fondamentale per guidare i dipendenti nella direzione indicata dalla strategia di gestione e per coinvolgerli nei processi di business – osserva Crotti –. Per questo lavorerà al fianco della prima linea per capirne e interpretarne le esigenze e poter impostare il recruiting e tutti gli interventi formativi in maniera strategica».
Sia in Paesi sviluppati, che in via di sviluppo, della sete di talenti soffrono tutte le aziende. Quelle di grandi dimensioni e le multinazionali, per riuscire ad assicurarsene un numero sufficiente hanno allargato la ricerca che «da locale è diventata globale. La Francia per trovare personale ospedaliero si rivolge al Nordafrica, la Germania è andata alla ricerca di ingegneri in India – continua Crotti –. Nel recruiting dei talenti, la concorrenza tra paesi emergenti e sviluppati sta diventando spietata perché sono vitali allo stesso modo per entrambi: i primi ne hanno bisogno per svilupparsi, i secondi per competere». Nei paesi sviluppati il capitolo talenti si sta però riposizionando. «Se fino a cinque anni fa era quasi esclusivamente un tema di recruiting, adesso sta diventando un tema di retention– aggiungeCrotti –perché i talenti per rimanere nello stesso posto di lavoro chiedono flessibilità sugli orari, sulla carriera e poi la possibilità di jobrotation, periodi sabbatici, percorsi internazionali e politiche di worklife balance».
L’equilibrio tra vita privata e lavoro è diventato un capitolo vitale in molti Paesi al punto che il 74% dei manager canadesi e il 70%di quelli americani ha intenzione di migliorare le iniziative aziendali di worklifebalance, un
tema molto sentito anche in America Latina, Africa, Europa.
Meno nei Paesi asiatici emergenti, dove è alta la richiesta dei dipendenti, ma da parte delle aziende per ora sembra esserci soltanto la volontà di affrontare l’argomento.
In Italia la sensibilità sta crescendo soprattutto perché è ormai chiaro che per fare fronte alla competizione internazionale con i paesi in via di sviluppo l’unica arma è la crescita della produttività e quindi, in molti casi,
delle ore lavorate. Le cronache mostrano, però, che a ogni tentativo delle imprese di contrattare con i sindacati l’aumento dell’uso degli impianti, e quindi delle ore o dei turni, si verificano forti attriti perché inevitabilmente
sorge il problema del bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa che non a caso i top manager indicano come una delle quattro sfide principali.
L’Italia, lungi dall’essere esonerata dalla guerra dei talenti, si vede costretta ad affiancarla a un tema di cui i manager iniziano ora a percepire l’importanza: la gestione del rischio demografico.
«Il baby boom avvenuto dopo la seconda guerra mondiale e il progressivo rallentamento delle nascite, in Italia è aggravato dal fatto che abbiamo una bassa percentuale di giovani che iniziano l’Università e arrivano alla laurea,
mentre ancora non si sentono gli effetti del miglioramento portato dalle lauree triennali», spiegaCrotti. Un quadro che difficilmente può essere migliorato pensando a un’immigrazione "alta" per la scarsa attrattività del nostro Paese, causata dalla lingua. Due gli aspetti che emergono nell’analisi del rischio demografico in Italia. Il primo è la gestione di una forza lavoro che ha un’età media sempre più elevata e che potenzialmente ha una probabilità più alta di avere un calo di produttività, accompagnato a maggiore assenza per malattia e minore capacità di evolversi e di cambiare seguendol’evoluzionetecnologica.
Il secondo è invece la perdita delle competenze e dell’esperienza, dovuto all’età media alta dei lavoratori e quindi ai futuri piani di esodo. Ma il gap tra le conseguenze che potrebbero verificarsi e i piani che stanno mettendo
in atto le imprese rivelano che «l’Italia non si sta attrezzando per affrontare la sfida», osserva Crotti. Diversamente dalla Germania o dalla Francia o dal Canada, per esempio, dove i top manager hanno una forte consapevolezza
dell’importanza del rischio demografico e quindi stanno mettendo in atto strategie per affrontarlo.
Per i top manager italiani al di là della capacità di fare evolvere il business, sarà necessaria un’evoluzione della cultura aziendale e quindi delle persone e del loro modo di lavorare. In un’azienda globale i dipendenti devono riuscire a interfacciarsi con lavoratori di altri paesi attraverso tutti i mezzi disponibili, dalla posta elettronica al telefono. Ovviamente in inglese. Questo significa adattarsi a un nuovo modo di lavorare in cui la comunicazione avviene su piani diversi rispetto a quelli tipici di un’azienda locale e implica la necessità di mettere in piedi un’organizzazione dove le differenze sono un vantaggio competitivo piuttosto che un ostacolo".

Cristina Casadei, Il manager apre il dossier demografia, Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2008

Nessun commento: