Fortune, ha pubblicato l’undicesima edizione della sua famosa classifica sulle cento migliori aziende nella quali lavorare negli USA nel 2008, realizzata in collaborazione con il Great Place to Work Institute.
Per il secondo anno consecutivo, la palma d’oro è andata a Google, il cui clima interno sembra essere imbattibile, non solo per il fatto che il 99 per cento dei dipendenti ha un piano di stock options che li galvanizza a seconda dell’andamento del titolo, ma anche per la cultura aziendale verso i collaboratori, la flessibilità, i benefit e le attenzioni dedicate ai bisogni personali dei propri collaboratori.
Tuttavia l’indagine in questione solleva più di una riserva. Non tanto sul meritatissimo primo posto di Google, azienda che tra l’altro ha quest’anno conquistato il primo posto anche nella classifica dei marchi in termini di valore (la Brand Top 100 di Millward Brown e Financial Times, che misura il valore economico dei principali marchi mondiali, dove il colosso di Mountain View ha sbaragliato tutti incrementando il valore del suo marchio da 66,4 miliardi di dollari del 2007 agli oltre 86 miliardi del 2008) quanto per alcune presenze e, soprattutto, per alcune assenze a dir poco inspiegabili.
Più che sorprendere per la presenza e il posizionamento di aziende della grande distribuzione alimentare come Wegmans Food Markets, al 3° posto nella classifica delle aziende più desiderate d’America e di Whole Foods Markets (16° posto), o di aziende del settore ospedaliero-medicale, come Methodist Hospital System, 10° posto nella classifica delle aziende più ambite nelle quali lavorare e di Ohio Health (28° posto), o il deludente risultato di due stelle della tecnologia, Microsoft e Yahoo!, rispettivamente all’86° e 87° posto, stupisce l’assenza di grandi aziende leader nei settori di riferimento con una consolidata esperienza nell'attrazione e gestione dei talenti.
E mi riferisco in particolare all’assenza, nell’elenco delle prime 100 aziende migliori nelle quali lavorare negli Stati Uniti, di colossi come General Electric, Coca-Cola, Ibm, Apple, Citi, HP, Oracle, Intel, Dell e Procter&Gamble per citare solo le prime che vengono in mente.
A ben guardare, le ragioni di questa inspiegabile situazione sono da ricercare nella tipologia di analisi effettuata o, meglio, sulla ristrettezza del campo di indagine che gettano ombre sulla reale utilità di un survey con queste caratteristiche.
Della classificazione delle prime cento aziende migliori nelle quali lavorare si è occupato, come abbiamo visto il Great Place to Work Institute che ha condotto un employer survey al quale hanno partecipato, in totale e per tutti gli Stati Uniti, 407 aziende sulle 1.500 invitate a partecipare.
Il primo limite dell’indagine in oggetto è proprio questo: l’estrema esiguità delle aziende analizzate. D’altra parte il survey in oggetto rileva solo i dati di quelle aziende che si iscrivono (pagando una quota) alla rilevazione.
Proprio per questo l’indagine non è in grado di restituire uno spaccato reale della realtà lavorativa nel Paese che si vuole analizzare. Che senso ha dire che l’azienda X è un bel posto in cui lavorare se sono in grado di compararne i risultati solo con una ristrettissima base di aziende e magari non con i miei competitor più diretti?
Poco più di 400 aziende per investigare il mercato lavorativo delle aziende degli Stati Uniti sembrano in effetti pochine per poter produrre uno studio che sia di un qualche interesse oggettivo, se non per l’autocompiacimento di chi, iscrivendosi, ottiene un buon risultato.
Rimango perplesso di fronte all'afermazione insita nei risultati del survey che gli americani preferiscano lavorare nel Sistema Ospedaliero Metodista piuttosto che in uno dei colossi delle tecnologie, della finanza o del largo consumo. Ne giova utilizzare a difesa dell’indagine condotta dal Great Place to Work Institute - che peraltro conduce un’analisi simile in Italia limitandosi a fornire un elenco con 35 aziende su un totale di non più di centocinquanta aziende analizzate – il fatto che si tratta di un’analisi di clima interno.
La sua utilità è e rimane fine a se stessa. Se non sono in grado di mettere in relazione i risultati della mia azienda con quelli del totale delle aziende che operano nel mio stesso contesto competitivo (vale a dire il mercato del lavoro) e con quelli delle aziende che operano nel mio stesso segmento di mercato (largo consumo, distribuzione, finance, tecnologia e via dicendo) qual è l’utilità dell’indagine per me che mi occupo in azienda di recruiting, risorse umane ed employer branding? In che modo simili dati possono essermi utili nel valutare come la mia azienda è percepita sul mercato del lavoro, quali sono gli asset che la contraddistinguono dai competitor, quali le specificità e quali gli ambiti di miglioramento?
Per correttezza, va detto che chi qui scrive è l’ideatore dell’indagine Best100, le aziende preferite dagli italiani realizzata ogni anno da PeopleValue per analizzare le preferenze lavorative di diplomati e laureati italiani. E, sempre per trasparenza e rispetto per chi legge, mi preme far osservare che nell’analizzare il tema dell’utilità o meno di un survey per il tema più generale che in questo contesto si affronta, ovvero l’employer branding, non esiste un conflitto di interessi in quanto la Best100 di PeopleValue non è assolutamente in concorrenza con quella realizzata dal Great Place to Work Institute. E' semplicemente diversa. Diversa è l’impostazione, diversi sono i fattori analizzati e diversi i risultati e le modalità di utilizzo.
La Best 100 di PeopleValue infatti nasce per analizzare l'immagine dell’azienda come employer presso i potenziali collaboratori dell’organizzazione e valutare il posizionamento del brand aziendale nel mercato del lavoro e rispetto a quello dei competitor più diretti.
La Best100 è in buona sostanza un indice che ogni anno restituisce il posizionamento del brand aziendale nei confronti del mercato del lavoro, tramite l’analisi dei giudizi di studenti, professional, diplomati e laureati italiani, dai 18 ai 54 anni, consentendo alle aziende di valutare l’impatto delle proprie politiche di employer branding verso i talenti.
L’immagine dell’azienda come employer presso i potenziali collaboratori dell’organizzazione diventa oggi importante al pari dell’immagine aziendale presso i consumatori finali. Il processo di recruitment oggi è una delle attività più complesse che possano esserci in azienda. Molte imprese hanno difficoltà a comunicare con gli studenti e con i giovani professional che vorrebbero assumere perché usano canali di comunicazione poco adatti o messaggi che non riescono a raggiungere con la dovuta efficacia i futuri collaboratori.
Il tema è particolarmente interessante: sappiamo quanto sia difficile assecondare l’esigenza di innovazione, quali problemi pone la necessità di gestire e guidare l’impresa verso il cambiamento e quanto importante sia il ruolo delle risorse umane in tutto questo, per la necessità di trattenere, attrarre e motivare i migliori talenti.
Come è mutata nel corso dell’ultimo anno la percezione delle aziende da parte del mondo dei lavoratori? Quali sono le aziende preferite agli occhi degli studenti o dei giovani manager? Quali le imprese che sono riuscite ad adeguarsi meglio al cambiamento in atto dando un’immagine positiva in un contesto economico caratterizzato dagli effetti della globalizzazione come quello attuale?
Sono queste ed altre le domande alle quali la Best100 di PeopleValue fornisce una risposta, consentendo a chi si occupa di risorse umane e di employer branding in azienda di avere un quadro chiaro e completo del mercato del lavoro visto dall’esterno, da quei diplomati e laureati, occupati e non, che possono essere i futuri collaboratori dell’azienda.
Consente, in particolare, di valutare come viene percepita l’azienda in generale sul mercato del lavoro, su uno specifico segmento di popolazione di interesse per l’azienda in relazione ad una serie di fattori quali età, stato occupazionale, tipologia di laurea e area di residenza.
Consente di mettere in relazione e comparare costruendo un benchmark di settore una specifica azienda con le altre che operano nello stesso segmento di mercato (largo consumo, industria, consulenza, information technology e via dicendo), valutando pundi di forza e di debolezza del brand aziendale.
Consente di capire quali sono i canali attraverso i quali comunicare con il proprio target di interesse e quali sono gli elementi su cui fare leva per ottenere un employer brand vincente (formazione, crescita professionale, attenzione alle esigenze personali, clima interno, benefit e via dicendo).
Consente di analizzare il risultato di una singola azienda su base nazionale o regionale, valutando come e in che modo uffici o localizzazioni di impianti produttivi possano influire sulla percezione dell’azienda come employer di riferimento.
Insomma, consente di avere tutti i parametri necessari per un audit dell’employer brand aziendale che è il punto di partenza di qualsiasi strategia di employer branding volta a migliorare e comunicare meglio l’azienda come buon posto in cui lavorare, tenendo presente che è un'indagine nella quale le aziende non debbono iscriversi e non debbono pagare per partecipare alle rilevazioni, perchè quello che viene rilevato è il mercato del lavoro nel suo complesso. Le aziende vengono spontaneamente citate dagli intervistati (circa 900 aziende citate dagli intervistati nell'indagine 2007) proprio perchè l'employer brand dell'azienda esiste nel mercato del lavoro, nella mente di studenti, professional, talenti e possibili collaboratori a prescindere dal fatto che l'azienda abbia o dedichi attenzione e risorse al tema dell'employer branding.
Per l’elenco completo dei migliori ambienti di lavoro negli Stati Uniti vai su Fortune 100 Best Companies to Work For 2008.
giovedì 8 maggio 2008
Fortune 100 Best Companies to Work For 2008: dubbi e riserve sull'indagine.
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